“Il verbo”, da due drammi di Kaj Munk, rielaborazione e regia di Matteo Spedicato, con giovani attori diplomati dell’Accademia nazionale d’arte drammatica. Al Teatro Studio “Eleonora Duse” di Roma
C’è dell’amore in Danimarca
L’allievo regista d’Accademia nazionale d’arte drammatica Matia Spedicato ha scelto come saggio di diploma un drammaturgo danese, Kaj Munk (Maribo,1898 – Silkeborg, 1944) del quale ha preso due lavori: Ordet (la parola, il verbo), del 1925, e Kærlighed (Amore), scritto l’anno successivo. Li ha fusi, ha intitolato la messinscena Il verbo e l’ha allestita al Teatro Studio “Eleonora Duse” di Roma.
Kaj Munk è stato la maggior personalità teatrale della Danimarca fra le due guerre ma in Italia è un autore poco conosciuto, anche se nel ’55 il regista Carl Theodor Dreyer trasse da Ordet un film che nel 1955 vinse il Leone d’oro a Venezia. La ragione che Spedicato avanza per l’oblio di un autore che fu giudicato un Ibsen danese è che si tratterebbe di una damnatio memoriae dovuta a un’iniziale attrazione superomistica di Munk per il fascismo e i dittatori. Il drammaturgo riscattò poi ampiamente la svista durante l’occupazione tedesca della Danimarca con un coraggioso sostegno alla resistenza che lo portò alla morte per mano d’una banda di maiali nazisti. È ricordato come un martire nel calendario dei santi della chiesa luterana.
Che sia l’iniziale fascinazione per il totalitarismo la ragione dell’oblio da parte della cultura italiana è forse una convinzione dettata dall’ottimismo. Una più desolata considerazione farebbe pensare che il danese per l’Italia non è esistito a causa di semplice ignoranza, di un disinteresse anche nei confronti dei suoi temi e soprattutto del suo modo di presentarli. Munk era un pastore luterano che apparteneva a una tradizione di pensatori e di teologi danesi molto problematici, carichi di dubbi e di domande, ad esempio un importante scrittore contemporaneo del drammaturgo anche se più anziano, Jacob Knudsen (1858 – 1917), autore di romanzi a tesi pieni di preoccupazioni etico-morali ispirate dalla metafisica di Søren Kierkegaard (il cui pensiero Munk conosceva a fondo). O come un altro famoso pastore luterano suo predecessore, Nikolai Frederik Grundtvig (1783 – 1872) che era sempre in polemica con lo stesso luteranesimo in nome di una religiosità spontanea e romantica. Nel dramma Egelykke (tradotto come Il bosco della felicità), Munk metteva in scena un giovane Grundtvig innamorato di una bella donna, Konstance, alla quale fa dire: «Grundtvig, Grundtvig, era il tuo amore che volevo e tu mi hai dato teologia». Si tratta di tribolazioni interiori molto austere, molto nordiche se si vuole, anche un po’ cupe che sono allo spirito mediterraneo ciò che l’oscurità del grande nord, notte generata dall’inverno boreale, è al buio del meridione, accecamento provocato dalla luce eccessiva del giorno.
Fra i personaggi de Il verbo figura proprio un pastore, Ejnar Kargo, che da Copenaghen arriva nel villaggio abitato dai Borgen, famiglia di proprietari terrieri; nel dialogo si rintracciano grandi questioni etiche e morali che comprendono i significati dell’amore e della morte, la responsabilità individuale (Kierkegaard in certi contesti aleggia sempre), il senso della sofferenza, l’intervento miracolistico del trascendente, la grazia della fede; spira in tutto il dramma il dubbio sull’esistenza di Dio. Il dubbio è il soffio umano come lo Spirito santo è il soffio divino.
Mikkei Borgen, il fratello maggiore, sposato con Inger, si occupa della tenuta mentre Anders, il minore, è innamorato di una ragazza appartenente a una famiglia bigotta che aderisce al pietismo, movimento di riforma religiosa in aperto contrasto con la teologia luterana. Sono risse dottrinali fra protestanti, quindi i due clan non approvano le nozze. Poi c’è il secondogenito Johannes, già brillante studente di filosofia diventato pazzo dopo la morte dell’amata e che si crede Gesù Cristo. La comparsa di Ejnar in questo ambiente piccolo, fosco, moralista rappresenta l’arrivo dell’amore, forza imprevedibile e incontrollabile che ogni cosa sconvolge. Il pastore e Inger s’innamorano l’uno dell’altra e si amano carnalmente. A nessuno viene da pensare che il miracolo sta nell’amore stesso, qui non vi è gioia, le stesse luci di scena sempre cupe lo indicano. L’Altissimo deve operare miracoli che non disturbano le società degli uomini. Qui verrebbe fuori un problema teologico molto serio e dibattuto: Dio può o non può fare miracoli che vanno contro le leggi della natura da lui stesso stabilite? Il miracolo dell’amore è del tutto naturale ma Munk non lo porge come tale e invece in Ordet mette in scena una resurrezione, del tutto contraria alle leggi di natura. Il regista nella sua rielaborazione lascia in sospeso il prodigio, scelta comprensibile che impedisce alla rappresentazione di andare nella direzione misticheggiante di un alleluia festaiolo e pretaiolo ed invece la mantiene sul piano di un teatro riflessivo e interrogante.
Messa in scena molto aderente al testo elaborato dal regista stesso: atmosfere notturne d’anime meditabonde e tormentate, una certa lentezza nell’azione che evoca una quiete dolente, una tristezza pauperistica dell’allestimento che esprime un’idea di provincia danese anni Trenta (ma potrebbe essere un ambiente di campagna nordico degli anni Novanta dell’Ottocento, degli anni Dieci del Novecento, questi sono posti dove il tempo passa lentamente). Come saggio d’accademia, che in quanto tale offre possibilità di scegliere e sperimentare al di fuori delle logiche di mercato, Il verbo è un buon lavoro d’un regista giovane in possesso degli strumenti del mestiere. Gli attori sono allievi o diplomati della “Silvio D’Amico” e dimostrano di possedere la tecnica dello stare in scena: dizione, emissione vocale, precisione nei movimenti. L’addestramento accademico resta un valore e una garanzia per questi nuovi artisti. Ancora recitano il personaggio, si concentrano come un atleta contrae i muscoli prima del salto in alto, ma la fluidità e la naturalezza verranno. E anche la finzione che non è fingere di essere qualcun altro ma far credere di non faticare ad esserlo. Tutti diplomati fra il 2022 e il 2024, sono Giovanni Conti (Johannes Borgen), Davide Fasano (Anders Borgen), Gabriele Graham Gasco (Ejnar Kargo), Arianna Pozzi (Inger), Michele Scarcella (Mikkel Borgen).