“Oreste” di Euripide, adattamento e regia di Alessandro Machìa. Con Marco Imparato, Alessandra Fallucchi e Andrea Tidona. All’Arcobaleno di Roma

Oreste

Gli eroi sono andati via e anche gli déi si allontanano

L’Oreste di Euripide adattato e messo in scena da Alessandro Machia all’Arcobaleno di Roma ha debuttato l’estate scorsa al teatro romano di Alba Fucens, poi è andato in tournée all’arena plautina di Sarsina e al teatro greco di Tindari. Si tratta di palcoscenici all’aperto nei quali la voce va usata in modo diverso da uno spazio cittadino chiuso. Gli attori dello spettacolo hanno portato in sé le serate e le stelle estive, l’aria, il vento. Adesso stanno nella sala di via Francesco Redi e urlano come se fossero ancora a recitare davanti al mare di Sicilia per farsi sentire anche dai delfini che saltano sotto il promontorio del teatro greco. Lo spettacolo assume una natura enfatica, il dolore si perde in un’enormità vocale, l’eccesso nasconde la sottigliezza dei sentimenti in personaggi che non sono più gli eroi tragici di Eschilo e di Sofocle, ma uomini e donne di media umanità. Esiste la possibilità, in ispecie nel caso di Euripide, di fare la tragedia in modo moderno, o meglio in un modo che non sia lo stile di recitazione retorico che noi sovente attribuiamo (senza prove) agli antichi.
A trasportare sic et simpliciter lo spettacolo in un teatro al chiuso, il rischio è aumentato di cadere nella magniloquenza recitativa tribunizia. L’Oreste euripideo senza più nulla di eroico è un dramma umano nell’Atene declinante, stremata dall’interminabile Guerra del Peloponneso, che sarà sconfitta definitivamente da Sparta nel 404 a.C., quattro anni dopo la “prima” dell’opera. In questa tragedia, scritta da un uomo ormai ottantenne, l’ultimo dei grandi tragici greci, due anni prima della morte nel 406, c’è molta stanchezza. Ora, pare che, come Platone, Euripide fosse afflitto da uno strabismo divergente e questo può invogliare a dare un’occhiata alla differenza fra l’Orestea di Eschilo andata in scena cinquant’anni prima, nel 458, l’unica trilogia arrivata fino a noi dall’antichità certamente nota a Euripide, e questo Oreste. L’eroe tragico senza pace di mezzo secolo prima, mangiato dai dubbi e dai rimorsi per avere ucciso la propria madre Clitennestra, si riduce qui a un poveretto insano di mente, in preda ad accessi di follia. I personaggi sono tutti creature di statura diminuita e il re Menelao, lo sposo di Elena, il vincitore di Troia, fa pure figura di uomo vile. Altro che i Campi Elisi ai quali, secondo Omero nell’Odissea, gli déi lo avevano destinato. Questa è la tragedia della senescenza d’un mondo di divinità ed eroi che scompare e il finale in cui Apollo, il solito deus ex machina euripideo, rimette le cose a posto e congeda paternalisticamente i personaggi è più malinconico che cupo, più miserabile che tragico. Andate in pace, Atene è finita.
Marco Imparato è Oreste con esagerazione, Alessandra Fallucchi è la sorella Elettra senza complessi e senza complessità. Giulio Forges Davanzati offre un Pilade (l’amico di Oreste) ben tenuto, privo di grida e agitazioni. Claudio Mazzenga non riesce a dar grandezza alla meschinità di Menelao, non dona al personaggio forza e valore di paradigma d’un tipo umano. Gli altri sono Silvia Degrandi, Tommaso Garré, Alessandro Giorgi, Caterina Petrucci, Alessia Ferrero. Andrea Tidona fa Apollo e Tindaro, piccoli ruoli per un grande attore.

Marcantonio Lucidi,
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