“Amadeus” di Peter Shaffer, uno spettacolo di Ferdinando Bruni anche interprete e Francesco Frongia. Con Daniele Fedeli e Valeria Andreanò. All’Ambra Jovinelli di Roma
Dio, il nano e il gigante
I costumi di Antonio Marras si notano prima d’ogni altra cosa. Sono meravigliosi, un Settecento teatralizzato con invenzioni dello stilista, per esempio le grandi spalle a forma d’ala per il vestito di Mozart, a simbolo d’una mente che vola nelle arie del divino. A quattro anni “il miracolo che Dio ha fatto nascere a Salisburgo”, come diceva suo padre Leopold, suona il clavicembalo, a cinque scrive i primi componimenti musicali, a meno di sei anni debutta con un suo concerto. Pochi mesi dopo parte per tre anni di tournée in tutta Europa e all’età di otto compone la sua prima sinfonia. Questo genio terrorizzante non è, malgrado il titolo del famoso dramma di Peter Shaffer, il protagonista assoluto di Amadeus, messo in scena all’Ambra Jovinelli di Roma da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. L’eroe, eroe negativo dallo spirito interamente occupato dall’invidia, è Antonio Salieri, uno Jago senza la grandezza nera shakespeariana, mosso da una cattiveria italiana, intrigante, serpentina, restituita dall’interprete, lo stesso Bruni, con un’ironia che trafigge di piacere chi ama la crudeltà dell’umorismo freddo. Davanti a lui, il Mozart di Daniele Fedeli è proprio il carattere disegnato da Shaffer: l’angelo della musica è un ometto volgare, goliardico, peta e amoreggia rozzamente, ma è un fanciullo divino al quale Fedeli riesce a dare il tono, l’atteggiamento, l’espressione ridente d’un discolo innocente. Carattere grossolano, spirito sublime.
Lo spettacolo è grande teatro popolare costruito con molta cura e raffinatezza, con evidente amore per l’arte. Nessuna approssimazione. Luci perfette, scene essenziali, Gli attori animano una compagnia come se ne vedono poche in giro, coesa, omogenea, di mestiere fino, in armonia con la regia e con le invenzioni di Marras. I costumi non costituiscono una banale parata di splendidi vestiti ma informano sui personaggi, descrivono chi sono e assecondano gli interpreti nel disegno dei rispettivi ruoli, nello stile, nell’estetica, finanche nella poetica dei caratteri. Allora è immediata la ragione teatrale, per esempio, dei due Venticello, “procuratori di informazioni e pettegolezzi”, come è riportato umoristicamente in locandina, coppia comica formata dai bravissimi Riccardo Buffonini e Alessandro Lussiana: entrano ed escono e tornano, s’aggirano, sogguardano, mormorano, sparlano, motteggiano, son quasi da Commedia dell’Arte, astutissimi servitori del mestiere e della messinscena che garantiscono i cambiamenti di ritmo, gli alleggerimenti, le pause prima delle accelerazioni, costituiscono il respiro della rappresentazione. E svolgono il compito annunciato sulla locandina di spifferare alla platea dicerie e maldicenze che appesantirebbero le parti dei colleghi e l’intero spettacolo se messe in bocca ad altri personaggi. Invece le cose avvengono vivacissime e brillanti di modo da spalancare poi con maggior sorpresa e sgomento la tragedia che verrà nel secondo atto. Sono tutti bravi: l’imperatore d’Austria Giuseppe II di Umberto Petranca sembra uscito fuori da un fumetto del Corriere dei Piccoli, un amico del Signor Bonaventura, o forse uno di quei frequentatori di salotti d’alta società nei quali la segaligna Petronilla trascinava il ritroso marito buontempone Arcibaldo.
L’odio di Salieri per Mozart, le manovre alla corte di Vienna del meno dotato per mandare in disgrazia l’uomo che non inventa le composizioni ma trascrive direttamente e senza un errore in partitura la musica divina, sono un’invenzione che nessuno storico ha mai confermato. E la storiella dell’italiano che avvelena il genio è una panzana evidentemente fondata sull’antica fama delle corti peninsulari piene di gente abile con cianuro e filtri venefici. Lo ammette anche Salieri che si tratta d’una balla da lui propalata perché se, senza dubbio, egli non passerà alla storia come grande musicista, almeno verrà ricordato dai posteri per avere ammazzato il musicista più grande. Cosa non si fa per ambizione, persino diffamarsi come assassino.
Gli intrighi all’italiana inventati da Shaffer e messi sotto al naso di un candido e scioccherello sovrano austriaco, hanno avuto un gran successo presso il pubblico, dal film di Miloš Forman, interpreti F. Murray Abraham e Tom Hulce, che nell’85 prese otto Oscar, alle edizioni teatrali: andato in scena per la prima volta il 2 novembre 1979 al Royal National Theatre di Londra per la regia di Peter Hall, con Paul Scofield nel ruolo di Antonio Salieri e Simon Callow in quello di Mozart, Amadeus vinse il Tony quando fu allestito nel febbraio successivo al Broadhurst Theatre di New York con Ian McKellen, Tim Curry e Jane Seymour nella parte di Constanze Weber, la moglie di Wolfgang.
Difficile il ruolo di Constance, qui affidato a Valeria Andreanò – intensa, caparbia nel suo governo del personaggio – perché non offre fughe nell’umorismo. La giovane sposa può solo essere felice e in seguito disperata del suo destino accanto a Wolfgang. A stare con un genio bambino non vi è riposo, né vita quotidiana nella quale intiepidirsi perché il divino fanciullo muore di un veleno ben più letale del cianuro, la vita. La tragedia accelera quando arriva la notizia della morte di Leopold, il padre che si è sempre occupato di tutto. Mozart non sa fare nulla, salvo comporre e suonare, Constance glielo dice quando ha capito che le cose volgono al peggio. Dio abbandona anche i suoi figli prediletti? Di sicuro ha tradito Salieri con il quale aveva stretto il patto di farlo diventare un musicista di successo in cambio di un’esistenza morigerata, casta e devota. Invece a Vienna e in tutta Europa è Amadeus – ama Dio, Dio l’ama – il favorito celeste. Allora Amadeus è una doppia tragedia di gelosia nei confronti di Mozart e di vendetta contro Dio. Il vecchio Antonio che incomincia il dramma sulla sedia a rotelle, prossimo alla morte e da tutti dimenticato per chiuderlo nella stessa situazione, è il simbolo del supremo dramma umano: la mancanza di talento che priva di ragion d’essere il reietto del Cielo.
Bravissimi tutti, applauditi da un pubblico entusiasta: l’ottimo Luca Toracca nella parte del Conte Franz Orsini-Rosenberg, direttore dell’Opera Imperiale, e l’altrettanto bravo Matteo de Mojana che interpreta il Barone Gottfried Van Swieten, prefetto della Biblioteca Imperiale. I ruoli vanno riportati nella loro dicitura completa, così come sono scritti nel copione, perché sono parte dell’ironia sottile che attraversa tutto l’allestimento fino alla morte sfrenata, drammaticissima di Mozart, da grande teatro popolare ottocentesco, senza paura per le scene forti e le fauci dell’abisso. In ultimo ma non ultima, Ginestra Paladino nel doppio ruolo della Contessa Johanna Kilian Von Strack e della cantante Katharina Cavalieri. Manca un solo personaggio nel dramma, Lorenzo Da Ponte, l’eccelso librettista di Mozart. Nella memoria degli esseri umani sopravvivono i giganti e i nani, non gli uomini.
