“La lezione” di Eugène Ionesco, regia di Antonio Calenda, interpreti Daniela Giovanetti e Nando Paone. Al teatro Basilica di Roma

La lezione

Entrate nella tirannide? Io n’esco

Dal 16 febbraio 1957, dal martedì al sabato alle otto di sera, al Théâtre de la Huchette di Parigi va in scena La lezione di Eugène Ionesco preceduta alle sette da La cantatrice calva. Tre spettacoli al giorno perché  alle nove questo celebre palcoscenico da ottantacinque posti del Quartiere Latino offre anche i titoli della programmazione stagionale. Nelle edizioni librarie francesi, La lezione si presenta generalmente impaginata in coda a La cantatrice calva, altro dramma famosissimo di Ionesco. Se fosse una canzone, nei vecchi 45 giri la Cantatrice sarebbe incisa sulla facciata A.  Allora perché la “facciata B” viene proposta con la stessa frequenza del dramma ritenuto più importante? Un motivo riguarda il tempo della rappresentazione: La Cantatrice è formata da un solo atto e dura appena un’ora, troppo breve; per completare la serata teatrale si procede con il secondo atto unico. L’altra ragione è che La lezione è una delle allegorie più spassose e grottesche mai scritte sul potere dittatoriale. Tutti sono ridicoli, i tiranni e i sudditi.
Il regista Antonio Calenda ha messo in scena al Basilica di Roma questo pezzo formidabile di Teatro dell’Assurdo – interpreti nei ruoli protagonisti Daniela Giovanetti e Nando Paone – e ha esaltato il significato del dramma con una chiarezza, una decisione che lo stesso Ionesco ha lasciato all’iniziativa e agli intenti del metteur en scène. Quando ormai il delitto è compiuto e l’allieva è morta sotto le coltellate del professore, l’autore scrive una didascalia per la governante: “Tira fuori un bracciale recante una insegna, una svastica, per esempio”. “Per esempio” indica che la scelta della croce uncinata è libera. Potrebbero essere adatte alla situazione storica del momento e del paese in cui si va in scena la “Z” dipinta sui carrarmati russi in Ucraina, le stelle gialle su fondo rosso della bandiera cinese, la spada con le quattro mezzelune della bandiera iraniana. Però siamo in Europa occidentale e il regista non solo riprende la svastica ma la esalta con una bandiera del Terzo Reich a coprire come un lenzuolo funebre il cadavere della studentessa. Tuttavia non dimentica di prendere in giro e sdrammatizza chiedendo a Valeria Almerighi una  Haushälterin, una governante, che pare Frau Blücher di Frankenstein Junior. Quando l’attrice parla manca solo il nitrito dei cavalli.
Naturalmente gli stupidi possono pensare che il governo attuale sia fascista al modo del Ventennio ma Calenda è assai lontano dalla stupidità. Esiste invece per ogni tempo e luogo una specifica declinazione del fascismo adatta al tempo e al luogo in cui si esprime. Ed è da fascisti trattare da stupidi coloro che lanciano il segnale d’allarme. La più grande astuzia del diavolo è farci credere che non esiste (Charles Baudelaire).
La pièce di Ionesco è una storia semplice per un dramma difficile. Si può riassumere in una sola frase: un professore timido che dà lezione a un’allieva insolente si rivela sempre più collerico, lubrico e violento mentre al contrario la ragazza diviene timorosa e passiva. La difficoltà teatrale e interpretativa sta nella mutazione dei caratteri e nel progressivo ribaltamento dei rapporti di forza. Il potere si maschera di democraticità, rispetto e buone maniere per palesarsi in seguito nella sua vera natura omicida.
A un contenuto molto serio, politicamente grave, si sovrappone un dialogo paradossale, ridicolo, irrazionale ma mai del tutto illogico. C’è sempre un filo di ferro con il quale l’autore infila coerentemente le battute una dietro l’altra; è questa logica dell’assurdo che rende comico un dramma altrimenti tragico e palesa agli spettatori – ossia ai cittadini – la cialtroneria canagliesca del potere, reboante e sanguinario come un Kim Jong-un, oppure compassato e belluino come un Putin. Tutto ciò però sta dietro l’allegoria che è appunto etimologicamente un “parlare d’altro” e guai se i tre interpreti avessero minimante da alludere al significato della pièce. Devono stare strettamente dentro la lezione di un professore a un’allieva, ché tanto le ragioni di Ionesco vengono a galla spontaneamente come la mascalzonaggine di uno squadrista di ieri o di oggi che raggiunge il potere.
Trattandosi di un teatro radicalmente antinaturalistico, la didascalia che informa sull’età dell’allieva, diciotto anni, può essere ignorata e al contempo va rispettata. L’attrice non deve per forza essere un’adolescente ma in un mondo paradossale e contraddittorio può apparire come una bambina adulta, una scolaretta fuori corso, l’età non conta, basta che abbia i calzettoni come l’interprete Daniela Giovanetti, la camicetta bianca, la gonna blu e l’aria della liceale analfabeta ma con la faccetta da saputella e la sensualità della pecorella smarrita accoccolata fra le zampe del lupo. È la ragazzetta del primo banco dagli occhioni sgranati sul professore e il ditino sempre pronto ad alzarsi per l’interrogazione. “Quanto fa 1+1?” – “1+1 fa 2.” – “Magnifico, magnifico! Lei mi sembra molto ferrata. Otterrà facilmente la libera docenza totale, signorina” – “Ne sono felice. Soprattutto perché me lo dice lei”. L’effetto in scena è tragicomico, quasi imbarazzante per la dignità della condizione umana: la scimmietta serva spulcia lo scimmione dominante.
Calenda sa che il dramma è talmente forte da non scadere mai nella farsa e spinge sul grottesco per evitare il più pallido sospetto di una Giovanetti fuori parte e al contempo permettere alla lezione di sventagliare sulla platea i suoi sarcasmi, le ironiche amarezze, le incongruenze derisorie come i pallini d’una lupara scaricata e ricaricata in continuazione dal genio di Ionesco. Attraverso un discorso sul potere, il dramma diventa un grafico della condizione umana disegnato con un controllo della lingua che permette ogni deformazione, ogni piegatura del significato, ogni oppressione verbale, più che giochi di parole sono gioghi di parole. Nando Paone non è solo un attore di gran valore ma, come avrebbe detto un cinematografaro, ha la faccia giusta per impersonare il professore, scavata, tesa, stralunata, angolosa, ossuta, mangiata dai vermi. Passa dalla timidezza, addirittura soggezione, alla ferocia con implacabile lento andamento e l’arte sua si mostra vieppiù nel momento di maggior difficoltà tecnica, quando l’interprete sta per così dire in mezzo al guado, si è quasi svestito della ritrosia e annuncia l’efferatezza. Bella coppia da Teatro dell’Assurdo, Paone e Giovanetti. E Calenda, oltre a scegliere un testo di settant’anni fa sempre contemporaneo perché costruito su principi fondativi e leggi generali del comportamento umano, ribadisce con questo spettacolo quanto il Novecento è importante per la storia del teatro, l’arte che tutte le contiene.

Marcantonio Lucidi,
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