“L’uomo che volò oltre se stesso”, scritto e interpretato da Giuseppe Manfridi diretto da Claudio Boccaccini. Al Teatrosophia di Roma

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Il racconto del raccontare

Giuseppe Manfridi in solitaria, e al contempo molto bene accompagnato dal suo pubblico, è andato in scena (diretto da Claudio Boccaccini al Teatrosophia di Roma) con un testo da lui composto che può essere considerato un Baedeker delle sue strade narrative. L’uomo che volò oltre se stesso non è un racconto e nemmeno un racconto nel racconto ma il racconto che racconta il raccontare. Fa’ conto che tutto ti sia racconto, e d’esser raccontato tu fa’ conto, in quel racconto fatti personaggio, per sempre vivo e subito miraggio.
Una novella di Nathaniel Hawthorne, Wakefield, così sottile e surreale da trovarsi nella Biblioteca di Babele, collana di letture fantastiche diretta da Jorge Luis Borges e pubblicata dal più raffinato degli editori italiani, Franco Maria Ricci, riferisce (per non ripetere “racconta”) di un signore sposato che un mattino esce dalla sua casa londinese e all’insaputa della moglie va per vent’anni ad abitare in una via vicina. Lo stesso giorno di ottobre di due decenni dopo torna a casa. “Come fosse rimasto via soltanto una giornata, entrò dalla porta e fu sposo esemplare fino alla morte”, dice Manfridi. Ora in chi ascolta l’autore e attore orare laicamente letteratura, vien da pensare che se Wakefield fosse rientrato dalla finestra, come un ladro di lustri, come una rondine del tempo, e si fosse furtivamente seduto sulla sua poltrona a leggere il Times, si sarebbe trattato di un aneddoto, al più d’una modesta crime story d’un giallista di Whitechapel. Invece è passato dalla porta perché nulla è più straordinario di un’azione ordinaria in una situazione straordinaria. Il monologo racconta l’eccezionalità del raccontare come una consuetudine di sempre, la sera attorno a un fuoco nelle caverne preistoriche, in un teatro dietro piazza Navona nel mezzo della Roma barocca. La macchina occulta del raccontare in Manfridi: concomitanze anagrammatiche, coincidenze numerologiche, concordanze semantiche. Orologeria esoterica. Il caso è il meccanismo inventato dal grande Orologiaio per rassicurare i miscredenti.
Manfridi non può tralasciare Bartleby, ma passa dalla porta più nascosta: “E ora, chiamasi lettura comparativa, leggiamo come inizia Bartleby lo scrivano di Melville, del 1853. Cifra anagramma dell’anno in cui nacque Wakefield: 1835. Notazione che vuol dir nulla o forse qualcosa”. È così che si cammina da funambolo, da un lato il vuoto del niente, dall’altro l’infinitezza del tutto. Naturalmente Borges c’entra, lo si incrocia durante il monologo perché è il padre di tutte le menti che non riescono a concepire il finito. E si incontrano molti altri giocatori di idee, Jules Laforgue con il suo Amleto che non s’interessa più della vendetta e pensa invece a scrivere il copione per lo spettacolo della compagnia di commedianti che giunge a Elsinore. Robert Walser narra del giorno in cui mentre beve un caffè in un ristorante, vede una bella donna, vorrebbe corteggiarla ma non figurare da sfrontato. Allora si mette a leggere una novella di Gottfried Keller, Romeo e Giulietta al villaggio e viene talmente preso dalla storia da dimenticarsi della signora, nel frattempo andata via e sparita quando lui rialza la testa. Isaac Singer in Vanvild Kava racconta d’uno scrittore importante che manda il manoscritto di un trattato sulla letteratura ebraica al redattore di una casa editrice impaziente di leggere perché si tratta sicuramente di un gran bel lavoro. Le prime sei pagine di cinquantacinque lo confermano ma poi tutte le successive compongono un saggio sui cavalli. Manfridi la chiama “devianza”, ossia quando qualcuno prende una strada storta, imprevista, uno scambio di binari che dirotta verso Orte un treno di sogni di corvi diretti a Orvieto. E questo qualcuno diventa un “fuorilegge dell’universo”, come scrive Hawthorne di Wakefield. La devianza è un altro meccanismo enigmatico, è il caso che ruota nel suo solito anagramma, il caos, per nascondere l’anagramma essenziale, la cosa, la quale appunto non ha nome ed è l’inconoscibile. Giochi manfridici dell’erudizione? Piuttosto enigmi del reale. Inutili? Forse, ma come Théophile Gautier scrive nella prefazione a Mademoiselle de Maupin: “Non vi è di veramente bello che quanto non serve a niente. Tutto ciò che è utile è brutto perché è l’espressione di qualche bisogno, e quelli degli uomini sono ignobili e disgustosi”.
Si arriva quindi a Bob Beamon, l’incredibile recordman del salto in lungo con 8 metri e 90 alle Olimpiadi di Città del Messico il 18 ottobre 1968. Quando Beamon salta, sono le 15.45 di un venerdì, quinto giorno della settimana, ottobre decimo mese dell’anno, 5+5, pettorale di Beamon 254. “Quanti cinque – osserva Manfridi – Chissà perché. Senza dire che con la rima in 35 abbiamo: la data di Wakefield (1835), quella delle Olimpiadi di Jesse Owens (1935) e il record di Boston spazzato via da Beamon (8,35)”. (Ralph Boston era il detentore del primato precedente).
Ora le possibilità sono due: o tutta questa serie di combinazioni numerologiche e anagrammatiche è inutile e allora si sta nel mistero della bellezza. Se invece significa qualcosa, si sta nella bellezza del mistero. Non c’è modo di risolvere la questione salvo ricorrere al demiurgo di tutte le arti, all’ozio, la sola attività degna dell’essere umano e la più faticosa di tutte.

Marcantonio Lucidi,
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