“Tanti sordi – polvere di Alberto”, di Frosini – Timpano – Pavolini, con Elvira Frosini e Daniele Timpano. Alla Sala Umberto di Roma

Tanti Sordi – Polvere di Alberto

Uno spettacolo che piace a chi si piace

Titolo non proprio originale e brillante, Tanti sordi  – polvere di Alberto, in scena alla Sala Umberto di Roma, è uno spettacolo della coppia Elvira Frosini – Daniele Timpano che piace alla gente che si piace. Alla gente di un certo milieu intellochic, intellocheap, insomma a quelli che fanno finta di non essere italiani.
Su un testo da loro scritto assieme a Lorenzo Pavolini, i due artisti tentano un avanspettacolo d’avanguardia che a furia di essere avant finisce rétro. Attraverso una parodia di Alberto Sordi sbeffeggiano l’italiano medio senza tenere conto d’una regola centrale della comicità: la satira d’una maschera non si può fare, prendere in giro ciò che già è buffonesco porta dritti al tragico o al miserando. Sordi è stato una grande maschera italiana allo stesso modo di, mutatis mutandis, Berlusconi, soggetto di per sé talmente caricaturale da rendere i comici che hanno voluto imitarlo delle pallide scimmiottature di un originale molto più divertente e grottesco di loro. Un secondo inciampo di questo spettacolo che si pone in termini di moderna critica di costume è la vetustà dell’assunto: come sintesi dello spregevole italiano medio piccolo borghese reazionario vigliacco cialtrone venduto che tira a campare nella speranza di non tirare le cuoia, Sordi è stato esso stesso esecrato (come Totò) dalle élites della sua generazione che confondevano la persona con il personaggio. Disistimato anche dalle generazioni successive, basta ricordare il “Ve lo siete meritato Alberto Sordi” di Nanni Moretti in Ecce bombo. L’Albertone nazionale non fu amato subito neanche dalle classi subalterne, come venivano chiamate una volta. La popolarità arrivò non precocemente per i suoi tempi, a trent’anni passati e dieci di gavetta in piccoli ruoli prima del riconoscimento con i film di Fellini Lo sceicco bianco e I vitelloni e al successo con Steno (Un giorno in pretura e ovviamente Un americano a Roma).
Non si capisce bene se Timpano caricatura le movenze di Sordi, i gesti, la camminata, i toni, con l’intento di irriderlo oppure di deridere gli italiani. Ne riprende momenti cinematografici famosi, quando mangia i maccheroni o quando in Dove vai in vacanza? (episodio Le Vacanze intelligenti) assiste con la consorte a un’esecuzione di 4’33”, la composizione sul silenzio di John Cage. L’attore in scena prende in giro chi? Due possibilità: l’italiano del 1978, anno di uscita del film (e questo sarebbe uno sketch da intitolare “Come eravamo cretini”). Oppure l’italiano di oggi che ancora si lascia incantare da Marina Abramović, come pare suggerire lo spettacolo (allora il titolo sarebbe “Anche oggi siamo cretini”). Ora, sia su Cage che su Abramović, le questioni critiche sono un po’ più articolate di come vengono presentate qui e non è detto che a tenerne conto si finisca automaticamente nella fossa della borghesia semi-colta (o semi-analfabeta che è quasi la stessa cosa) con l’anello al naso. Uno spettacolo strabico nel senso che non è chiaro il bersaglio della satira: l’attore nazional-popolare? L’italiano medio-mediocre?
Su tutto grava la retorica del mondo spiegato da noi che lo abbiamo capito, che poi è il meccanismo di albagia pedagogica che ha reso agli occhi del popolo (lo si chiami con il suo nome) insopportabile e odiosa la sinistra, più precisamente le muffose stanzette gauchiste delle scene, dei premi, dei giornali e dei partiti loft – left. Due ore di lezione sono molte anche all’università.
I momenti migliori d’una rappresentazione che chiede molta energia ai quattro attori – in scena anche Marco Cavalcoli e Barbara Chichiarelli – sono quelli in cui l’argomento Alberto Sordi viene temporaneamente tralasciato. Se lo spettacolo si alza quando parla d’altro, allora il tema principale, che dovrebbe sostenerlo, è una zavorra. Ma il proposito didattico, che qui resta sempre evidente, agisce come il sale nel caffè, e alcuni monologhi, quello finale per esempio affidato ad Elvira Frosini, hanno il sapore di predicozzi vanamente addolciti con la panna della recitazione. Il teatro può essere moralistico ma non bisogna darlo a vedere. Il resto 4’ 33”.

Marcantonio Lucidi,
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