“L’albergo dei poveri” di Maksim Gor’kij, riduzione di Emanuele Trevi, regia di Massimo Popolizio anche interprete. Al teatro Argentina di Roma

L'albergo dei poveri

Nei bassifondi dei nostri giorni

Al teatro Argentina di Roma Massimo Popolizio ha messo in scena L’albergo dei poveri di Maksim Gor’kij (nella riduzione di Emanuele Trevi). Il fatto è importante per vari motivi, alcuni evidenti, altri desumibili. L’albergo dei poveri fu lo spettacolo con il quale il 14 maggio 1947 Giorgio Strehler inaugurò il Piccolo di Milano. Il teatro per Strehler aveva una funzione di servizio pubblico, come l’acqua o i trasporti comunali, e doveva essere “innanzitutto e semplicemente contemporaneo”. Si era appena usciti dalla guerra, gli italiani pativano una fame nera. Il dramma di Gor’kij si svolge in un dormitorio, un rifugio di poveri, di disperati, di alcolizzati che tentano di attraversare le loro giornate senza sprofondare definitivamente.
Popolizio sceglie di realizzare questa denuncia sociale che l’autore russo scrisse tre anni prima della rivoluzione del 1905 e che andò in scena in quello stesso 1902 al Teatro d’Arte moscovita di Konstantin Stanislavskij e Vladimir Nemirovič-Dančenko. Ora che di nuovo l’Europa, non solo l’Italia, è con sempre maggiore evidenza sventrata dalle diseguaglianze economiche e sfigurata dalla spaccatura irrimediabile fra il popolo (come lo si sarebbe chiamato una volta) e la corrotta nomenklatura politica, burocratica e finanziaria, questo testo ritorna come al Piccolo di Milano nel ’47, come nel 1902 al Teatro d’Arte. Forse di tratta di un dramma che funziona al modo del canarino nelle miniere di carbone: avverte che l’aria è diventata tossica.
Sarebbe difficile credere che Popolizio abbia scelto L’albergo dei poveri solo perché gli piace l’opera o per istinto d’artista, perché s’è svegliato una mattina e s’è detto “Ora faccio Gor’kij”. I suoi spettacoli all’Argentina, Ragazzi di vita dal romanzo di Pasolini, Un nemico del popolo di Ibsen e altri, per esempio M il figlio del secolo dal romanzo di Antonio Scurati su Mussolini, dimostrano che il regista e attore è un artista della scena attento a quanto succede nella polis, nella nostra società. Fa insomma un teatro politico all’interno di uno stabile pubblico. Usa quindi gli ampi mezzi del Teatro di Roma per offrire alla cittadinanza un servizio, come l’acqua, come gli autobus, secondo l’idea di Strehler.
Adesso lo spettatore è invitato ad entrare nell’albergo dei poveri. E trova la stessa gente che sempre più numerosa affolla la Caritas e la stazione Termini di Roma. O le strade di Parigi, ove derelitti e clochard non più romantici rasentano le vetrine dei negozi di Boulevard Saint-Germain riservati a sultani occidentali ed orientali. Un vecchio vestito di stracci sta passando in questo momento davanti a una cioccolateria di Rue du Bac attrezzata come una gioielleria con lunghe bacheche da esposizione nelle quali i singoli quadratini di cacao sono incastonati in raffinate scatoline argentate o dorate. Il rifugio, il dormitorio, la tana pulciosa che il regista ha chiesto agli scenografi Marco Rossi e Francesca Sgariboldi è interamente di legno, passerelle, tavole che servono da letto, tavoli che servono per mangiare, tutto appare precario, rimediato, deteriorato. Ma questa scenografia è un ottimo esempio di come si può costruire con senso estetico sicuro un ambiente che raffiguri lo squallore senza mai scadere nella sciatteria. Osservazione valida anche per i costumi di Gianluca Sbicca, il quale mostra la miseria con una cura che scongiura il rischio del miserevole.
Le vicende che Gor’kij racconta sono alcune delle tante possibili in questi Bassifondi (altro titolo con cui è noto il dramma) abitati da ladri, prostitute, alcolisti, semplici disperati e anche lavoratori che, come molti oggi, non vengono pagati abbastanza per assurgere a una vita decente. Vivono lì dentro personaggi vari, un giocatore d’azzardo baro, un aristocratico che ha sperperato ogni ricchezza ed è finito sul lastrico, un attore teatrale, categoria anche ai giorni nostri spesso stesa sulla miseria, un operaio con la moglie malata prossima alla morte. Gente che litiga in continuazione perché i poveri non sono evangelicamente buoni, ma urlano, picchiano, ammazzano. Feroci e violenti come i possidenti, i quali fanno le stesse cose però nell’osservanza del galateo, dei toni pacati, dei gesti misurati. Vasilisa, moglie di Kostylëv, il proprietario del dormitorio, è invaghita di un ladruncolo, Vas’ka Pepel, e lo convince ad uccidere il marito. Vas’ka Pepel è però innamorato di Natal’ja, sorella minore di Vasilisa. Gli esseri umani sono uguali dappertutto, all’Excelsior come sotto i portici della romana piazza Vittorio, fa la differenza l’odore che hanno addosso. Nel dormitorio appare all’improvviso un pellegrino di nome Luka (interpretato dallo stesso Popolizio). Il nuovo arrivato cerca di calmare gli animi, di risolvere le situazioni, di portare un po’ di pace ma una cosa gli uomini sanno fare molto bene ed è rovinare la vita ad altri uomini.
Il regista ha impostato il lavoro dei sedici attori in scena (compreso se stesso) su una omogeneità interpretativa e su una cifra espressionista che ricorda l’atmosfera del romanzo di Alfred Döblin Berliner Alexanderplatz scritto nel 1929, altra data fondamentale per la storia della miseria nel Novecento. Scelta estetica sostanzialmente inevitabile onde scampare il grottesco o la retorica della pietà e mantenere invece lo spettacolo su una linea politica, su un’idea shakespeariana del teatro “il cui fine, da quando è nato ad oggi, è di regger lo specchio alla natura, di palesare alla virtù il suo volto, al vizio la sua immagine, ed al tempo e all’età la loro impronta” (Amleto, atto III, scena 2). Palesare al tempo e all’età la loro impronta, ecco cosa fa Popolizio con questo allestimento, che, se queste premesse sono corrette, ha cercato e raggiunto una comunione stilistica di tutta la compagnia perché per raccontare una società e un momento storico ci sono molti modi, ma un’unità corale per un dramma di denuncia sociale è uno dei più efficaci. Tutti uguali, tutti giusti allora i quindici suoi compagni: Giovanni Battaglia, Gabriele Brunelli, Luca Carbone, Martin Chishimba, Giampiero Cicciò, Carolina Ellero, Raffaele Esposito, Diamara Ferrero, Francesco Giordano, Marco Mavaracchio, Michele Nani, Aldo Ottobrino, Silvia Pietta, Sandra Toffolatti, Zoe Zolferino.

Marcantonio Lucidi,
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