“Farà giorno” di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi, regia di Piero Maccarinelli. Con Antonello Fassari, Alvia Reale, Alberto Onofrietti. Al teatro Parioli di Roma

Farà giorno

La stanza delle generazioni

Manuel è un giovane fascistello teppistello borgataro analfabeta come un ratto; Renato è un vecchio comunista partigiano perbene e colto come un uomo dovrebbe essere. È il gioco degli opposti d’una commedia di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi intitolata Farà giorno in scena al teatro Parioli di Roma con la regia di Piero Maccarinelli. Lo stesso regista aveva messo in scena questi due atti una decina d’anni fa con Gianrico Tedeschi, Marianella Lazslo e Alberto Onofrietti. Tedeschi e Laszlo se ne sono andati, il primo all’età di cent’anni nel 2020, lei nel 2021, lasciando un vuoto nel teatro italiano. Adesso in scena assieme ad Onofrietti che di nuovo fa Manuel, lavorano un bravo Antonello Fassari interprete di Renato e Alvia Reale nel ruolo di Aurora, figlia del comunista ed ex terrorista rossa con galera alle spalle, oggi medico in Africa.
Il fatto rimarchevole è che Maccarinelli fa un’operazione di repertorio, cioè ritiene che Farà giorno merita di essere ripreso perché è una buona commedia italiana. Molto italiana: parla di un conflitto generazionale, quindi comprensibile in ogni luogo e tempo, ma all’interno di una situazione rivelatrice di alcune questioni inerenti la storia recente del nostro paese. Questa è valorizzazione della drammaturgia nazionale.
Ora i due opposti, Renato e Manuel, vengono bloccati con un pretesto che li costringe a stare insieme in una situazione chiusa, come se ne trovano nei drammi di Teatro dell’Assurdo e nei gialli teatrali tipo Trappola per topi. Il giovane ha investito con la macchina il vecchio (che vive solo in una stanza sulla quale regna una gigantografia di Gramsci) e gli ha rotto una gamba. Il teppistello non ha l’assicurazione e la patente gli è stata ritirata. Renato non lo denuncerà, però siccome non ha nessuno che lo accudisca, chiede a Manuel di assisterlo quotidianamente fino a quando la gamba non sarà guarita. L’azione è in buona parte demandata al dialogo, anzi allo scambio di opinioni sulla vita, la politica, i principi dell’agire umano in cui la gravità di questi argomenti viene continuamente alleggerita dalla grottesca incompatibilità fra i due personaggi e (ovviamente) dall’interpretazione degli attori che cavano dal testo il pretesto per ogni scontro possibile. Il disaccordo è totale, la distanza incolmabile, persino nei movimenti, il comunista bloccato a letto e il teppistello in perenne scalmanata per la stanza. E qui il regista sviluppa un ulteriore contrasto fra la superiorità fisica ma l’inferiorità intellettuale del giovane e viceversa, il corpo in stato di bisogno e sudditanza del vecchio che però mostra senza pietà una statura intellettuale e morale all’altro inarrivabile. Orizzontale fuori ma verticale dentro Renato, sdraiato dentro e in piedi fuori Manuel.
Ad essere pignoli, uno squilibrio c’è. La commedia è per tutta la prima parte interamente a favore dell’anziano partigiano, di colui che ha fatto la guerra a schiena dritta, la vecchia generazione, l’uomo di sinistra; mentre il ragazzo, la classe nuova e fascistella, bella figura non fa. Questo aspetto, dieci anni fa sarebbe potuto apparire un po’ eccessivo. Oggi, visti i tempi reazionari che in Italia corrono, consente di ricordare anche all’attuale sinistra, quasi tutta votata alla truffa di spacciare gli ideali per ideologie e dedita all’evacuazione di qualunque afflato etico e morale, dell’esistenza di uomini e donne che sono stati partigiani e hanno fatto la guerra a schiena dritta dalla parte giusta (perché c’era una parte giusta e una sbagliata).
Nella stanza del comunista le cose mutano, il teppista ovviamente si è messo nei guai per una rissa di strada e incomincia a prendere coscienza d’aver vissuto fino ad ora sotto una cappa di bestialità. Arriva Aurora, la figlia di Renato che il padre stesso denunciò come terrorista trent’anni prima facendola finire in galera. Qui il dramma porge allo spettatore almeno un paio di dilemmi: è giusto che un genitore tradisca la figlia in osservanza di un rigore etico che primeggia sull’amore paterno? Fra la lotta partigiana e la lotta terroristica esiste una differenza morale oppure partigiani sono quelli che hanno vinto e terroristi quelli che hanno perso? Domande alle quali gli autori giustamente non rispondono per evitare moralismo e retorica ma che offrono alla riflessione del pubblico. A ciascuno la risposta secondo coscienza e valori. Porre un interrogativo senza imporre una soluzione equivale a una riverenza davanti alla libertà di pensiero.
Fassari e Onofrietti hanno un ottimo rapporto con i rispettivi caratteri e stanno a loro agio anche dentro la regia. Con loro, la rappresentazione scorre liscia, chiara; non ci sono sbavature salvo in apertura di sipario la telefonata di Manuel che stranamente Onofrietti, esperto del ruolo, affronta steccandola interpretativamente. Dev’essere stato il breve smarrimento d’una sera perché poi l’attore si fa sempre più sicuro. Fassari ha ritmo, ha mimica, è ironico, dal letto mostra d’avere gran presenza scenica e insomma assieme al collega forma una coppia che funziona e che Maccarinelli spinge e sfrutta al meglio. Alvia Reale interpreta Aurora, donna tutta d’un pezzo, ostica, severa nelle sue scelte e nei suoi valori. L’attrice istruisce la rigidità del personaggio mediante quella recitativa, ossia interpreta la durezza e non la persona dura come se invece di fare Otello si recitasse la gelosia. Almeno nella prima parte della sua prova, si lascia sfuggire il senso di un ruolo in rappresentanza della generazione di mezzo, la quale ormai sa ma ancora qualcosa forse può (secondo un vecchio detto: “Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse”). Tuttavia nel suo procedere, Reale a un certo momento cambia registro, riesce a trovare la temperatura del personaggio, ma siccome la parte è relativamente breve rispetto all’arco del dramma e al tempo della rappresentazione, dispone di poco spazio per centrare il ruolo e sostenere implicitamente che la rigidità iniziale è strategica per l’evoluzione di Aurora (in fondo il teatro è un meraviglioso imbroglio). Alla fine un risultato importante l’attrice lo ottiene, ossia porre la figlia come una figura che riequilibra, anzi perfeziona il rapporto fra il giovane e il vecchio nelle sue ragioni e nel suo sviluppo di modo da portare il dramma a un credibile finale. Scene di Paola Comencini che costruisce un bell’interno di comunista vecchio stampo pieno di libri e un po’ disordinato ma non troppo, di chi non s’interessa delle cose materiali ma non intende dimorare nella confusione della stanza in cui vive e della stanza mentale in cui pensa.

Marcantonio Lucidi,
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