“Cabaret – il musical” di Joe Masteroff, John Kander, Fred Ebb. Regia di Luciano Cannito e Arturo Brachetti anche interprete assieme a Diana Del Bufalo. Al teatro Brancaccio di Roma

Cabaret

Willkommen in Berlin

Alla fine dello spettacolo, quando il sipario si sta per chiudere sugli ultimi applausi, Arturo Brachetti lancia al pubblico un grido: “Viva la libertà!”. Ecco sì, viva la libertà di essere omosessuali, eterosessuali, ebrei, artisti, decadenti, prostitute, promiscui, innamorati, di essere chi si vuole fuorché un nazifascista che sopprime chi non è come lui. E siccome in Italia questi sono tempi in cui i fascisti adottano la strategia vincente del diavolo di fare credere che il diavolo non esiste, mettere in scena il musical Cabaret è un’operazione di teatro politico.
Nell’allestimento al Brancaccio di Roma, Arturo Brachetti, regista assieme a Luciano Cannito e interprete nel ruolo del maestro di cerimonie, si presenta a un certo momento travestito da Hitler nanerottolo sopra un mappamondo, a chiara citazione di Charlie Chaplin, e in un battito di ciglia si trasforma in Satana. Di simili fregolismi sorprendenti Brachetti ne produce altri durante la rappresentazione ma l’impressione è che si tratti di divertissements da regalare agli spettatori, di saggi del talento che lo ha reso noto in tutto l’orbe terracqueo. Sotto la riproposta del famoso titolo musicato da John Kander, testi di Fred Ebb e libretto di Joe Masteroff, andato in scena la prima volta nel ’66 allo Shubert Theatre di Boston, la questione è un’altra. La si capisce benissimo grazie al finale scelto dai due registi (ispirato a quello delle edizioni di Londra 1993 e di Broadway 1998) in cui il maestro di cerimonie, omosessuale ed ebreo, s’avvia nudo, con al braccio la fascia gialla imposta dai nazisti ai giudei, verso un fondo scena invaso dal fumo (dei forni crematori). “Su l’assenza che non chiede / Su la nuda solitudine / Su i gradini della morte / Scrivo il tuo nome” (Paul Éluard). Libertà.
Cabaret trae ispirazione da un romanzo sostanzialmente autobiografico di Christopher Isherwood, Goodbye to Berlin, uscito nel 1939 e ambientato all’inizio degli anni Trenta durante la Repubblica di Weimar, quando Berlino era la capitale della libertà sessuale, della vita notturna, dei bordelli, dei palcoscenici. Un covo di artisti rivoluzionari e una tana di cabarettisti ebrei, l’antinazista Walther Mehring o il ferocissimo Kurt Tucholsky che prendeva per i fondelli anche i suoi correligionari borghesi. Si esibivano in locali che dovevano essere come il Kit Kat Klub del musical, luoghi di spettacolo, perdizione, ballerine, incontri licenziosi.
Il giovane Isherwood è stato un esponente di quella schiatta di sofisticati letterati britannici omosessuali come il poeta Wistan H. Auden (di cui fu amante) oppure i coevi ma più anziani Norman Douglas, Edward Morgan Forster e altri. Se ne venne a Berlino, attratto dal gran movimento della città e dalla libertà che offriva, a vivere e scrivere un romanzo. Esattamente come il Clifford di Cabaret, scrittore di mestiere che di cognome fa Bradshaw, lo stesso di Christopher che per esteso si chiamava Bradshaw-Isherwood. Questa è evidentemente un’indicazione degli autori per la costruzione del personaggio, certo non dal punto di vista sessuale visto che si innamora di Sally Bowles, la diciannovenne cantante e ballerina del Kit Kat, ma per la figura che se ne può cavare: un americano ma raffinato, un anglosassone di trattenuta, romantica passionalità, riservato e gentile epperò capace di accaloramenti insospettati. Lo interpreta Cristian Catto, giovane professionista del musical ben impostato al canto e alla danza mentre alla recitazione sembra meno sicuro e attento a non esporsi troppo, cosicché serve il personaggio proprio in virtù di una parsimonia interpretativa. Sotto questo aspetto, Cabaret è un musical atipico che dà un peso rilevante alla prova d’attore nella quale gli artisti del genere, spesso ferrati sul piano vocale e tersicoreo, si mostrano più deboli. Invece la questione che investe Diana De Bufalo, l’interprete di Sally Bowles, è un’altra. Al di là dell’indimenticabile interpretazione cinematografica di Liza Minnelli nel film di Bob Fosse, il ruolo è stato ricoperto a teatro da artiste maiuscole come Judi Dench nel ’68, Natasha Richardson che nel ’98 vinse il Tony e in Italia nel ‘93 una magnifica Maria Laura Baccarini. La parte pretende un’interprete di grande presenza scenica, una rapitrice di platee, un’ipnotizzatrice entusiasmante capace di sovrastare il più ricco e risplendente degli allestimenti. Non è un fatto di tecnica che De Bufalo mostra di avere, al canto in particolare (la si ascolti nella canzone del titolo, Cabaret), ma di carisma. Persino il talento, con tanta pratica e abnegazione è simulabile e appare come bravura, competenza, esperienza. “Carisma” per il vocabolario Treccani: “Nel linguaggio religioso, la grazia come dono elargito da Dio”. Perfetto, vale anche nel linguaggio teatrale.
Carismatico ma anche ironico, simpatico, inquietante, crudele, ghignante, commovente è il maestro di cerimonie di Arturo Brachetti che per alcune espressioni, certi modi di muoversi, la sua aria da fool tragico e comico, ricorda Lindsay Kemp. Il ruolo di narratore epico (brechtianamente inteso) che partecipa all’azione, antinaturalistico ed espressionista gli sta addosso a sua misura, beffardo e irriverente ma con un fondo commovente di angelo dannato decaduto in una terra weimariana che fra un attimo finisce nella bocca dell’inferno nazista.
Molto bravi al canto e alla recitazione Christine Grimandi nel ruolo dell’attempata Fräulein Schneider, l’affittacamere che ospita Clifford, e Fabio Bussotti nella parte dell’anziano Herr Schultz, il fruttivendolo ebreo. Deliziosi, teneri, abili anche alla recitazione, rappresentano la seconda coppia, gente comune berlinese, i semplici che tirano a campare e prendono la vita come possono. Lui non capisce cosa sta per travolgerlo, è innamorato, vuole sposare Fräulein Schneider, lei è lusingata e contenta, insieme intonano Married. Il Male però arriva, a Schultz spaccano la vetrina del negozio, e la signora Schneider dice di no, non lo può sposare: “With time rushing by, what would you do? – canta – With the clock running down, what would you do? Con il tempo che corre via, cosa faresti? Con l’orologio che scorre, cosa faresti?
Il Male è il nazista Ernst Ludwig affidato a Niccolò Minonzio che potrebbe dare un arco evolutivo maggiore, una spinta più decisa e intensa al suo personaggio, inizialmente amico dello scrittore e poi avviato al peggiore dei destini criminali. Lo accompagna la prostituta Fraulein Kost (Giulia Ercolessi) che ha trovato la sua salvezza nel nuovo ordine tedesco e con una passione prefiguratrice di sanguinari giorni canta assieme al suo nuovo maschio hitleriano e all’ensemble di otto cantanti e danzatori l’agghiacciante Tomorrow Belongs to Me, il domani appartiene a me.
La formazione tersicorea che lavora sulle coreografie di Luciano Cannito offre buona prova salvo un paio di sbavature d’una sera (per esempio, il movimento d’una ballerina che da dietro allontana con una spinta il collega in errore sulla distanza). Costumi di Maria Filippi che gioca con uno dei periodi di storia del costume più divertenti del Novecento. Scenografie di Rinaldo Rinaldi prive di particolari trovate però è vero che in questo caso la professionalità si vede nell’astensione, nel lasciare spazio alle coreografie. Direzione musicale di Giovanni Maria Lori, band dal vivo formata da Gianmarco Careddu (Batteria), Ermanno Dodaro (Contrabasso), Paolo Rocca (Clarinetto/sax contralto), Roberto Rocchetti (pianoforte).

Marcantonio Lucidi,
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