“Snowflake” di Mike Bartlett, regia di Stefano Patti. Con Marco Quaglia, Lucrezia Forni e Adalgisa Manfrida. Alla Fortezza Est di Roma

Snowflake

Woke in progress

È la vigilia di Natale, a Oxford. Nella sala di una parrocchia, Andy, vedovo da sei anni, ha preparato l’albero con gli addobbi, rallegrato la stanza con i palloncini colorati e steso uno striscione con la scritta “bentornata a casa”. Indossa una maglietta con il disegno stampato di un pupazzo di neve per sdrammatizzare la situazione quando sua figlia Maya, che non vede da tre anni, andata via senza dare spiegazioni, arriverà per passare con lui questa sera di festa. Almeno così lui spera. Questo è il punto di partenza di Snowflake (Fiocco di neve), dramma a tre personaggi scritto dall’inglese Mike Bartlett e messo in scena alla Fortezza Est di Roma da Stefano Patti che dirige Marco Quaglia, Lucrezia Forni e Adalgisa Manfrida.
La prima parte del testo è un monologo del padre costruito con sagacia ed umorismo sul personaggio di un inglese della middle-class impiegato in un museo, abbastanza colto ma non molto, abbastanza informato ma non troppo, abbastanza di sinistra ma senza eccedere, abbastanza su tutto e scarsamente su ogni cosa. Quaglia ha studiato bene Andy, lo ha introiettato, lavora come un interprete di scuola americana: contrariamente alla tradizione italiana in cui l’attore entra nel personaggio e lo governa, qui è il personaggio che entra nell’attore e gli dice cosa deve fare in scena. Naturalmente tale metodo presuppone che il personaggio abbia in qualche modo una realtà. Tuttavia, una figura generata dalla fantasia epperò reale è un’entità surreale e questa, dal punto di vista teorico, sarebbe una contraddizione. Ma chi se ne importa della contraddizione se il risultato pratico è la prova di Quaglia: perfeziona una psicologia in equilibrio difficile fra timidezza, insicurezza, riservatezza britannica, mediocrità (civile, educata) e agisce sovente in controtempo, ritarda la battuta con l’accenno d’un sorriso, la tronca con un gesto d’imbarazzo, la sospende con una smorfia; ottiene effetti comici mediante cadute improvvise del ritmo, chiusure mancate e sospensioni inaspettate. La prova di Quaglia è la dimostrazione che se nell’arte dell’attore vi è una tecnica totalmente innaturale, questa è il naturalismo. Quando applicata come si deve, non offre spazio allo spontaneismo né alle approssimazioni, ma vuole metodo, studio, rigore, tempi matematici.
Questa assenza di ideologia della recitazione a profitto del risultato rende un buon servizio a un testo che dopo il monologo, quando entra in scena Natalie, che si rivelerà la fidanzata di Maya, scopre il suo obbiettivo di critica antiideologica all’ideologia dei giovani. Il dramma incomincia a svelare il suo tema, il conflitto generazionale, attraverso la progressiva risposta alla domanda iniziale “perché Maya ha improvvisamente lasciato la casa del padre tre anni fa?”. Il dialogo fra Andy e Natalie è una mappa delle incomprensioni intergenerazionali che annuncia e descrive il territorio sul quale si svolgerà la battaglia fra il padre e la figlia. Questa è proprio buona tecnica drammaturgica, anche se Bartlett a volte spiega troppo e allunga il già detto come se non sempre avesse fiducia nel comprendonio dello spettatore. Con l’entrata di Maya arriva la spiegazione: tre anni prima, il 23 giugno 2016, la sera della Brexit e dei risultati elettorali, Andy e Maya hanno avuto una discussione. Il padre ha votato leave, l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, la figlia remain. Alle ragioni addotte dalla ragazza, il padre ha fatto dei sorrisetti ironici, la figlia si è sentita presa in giro, il mattino dopo se n’è andata e non ha più voluto vedere il genitore. Reazione esagerata, ridicola addirittura se non avesse causato molta sofferenza. In teoria drammaturgicamente non regge. Però qui l’attacco dell’autore, che quando ha scritto Snowflake aveva trentotto anni, quindi rappresentante di una generazione precedente quella di una ventenne, si concentra sull’attuale idea giovanile di tolleranza, spinta a un tale livello di fanatismo da generare una feroce intolleranza. La ragazza è una piccola fascista del politicamente corretto, una balbuziente del pensiero e pavida d’animo che vorrebbe dirne quattro a Boris Johnson e non riesce a spiccicare una parola ma solo a piangere permettendo involontariamente al leader politico di fare la figura di un uomo di cuore: “Va tutto bene?”.
In Italia un personaggio come Maya è meno comprensibile perché da noi l’ideologia woke, che sta al centro della cancel culture, non ha avuto una diffusione vasta come negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e persino nella laica, scettica Francia. Le battaglie femministe, antirazziste, antidiscriminatorie, giustissime e necessarie in se stesse, sono degenerate nella convinzione woke che nascere maschio bianco, occidentale e cristiano sia una colpa (di cui parla lo stesso Andy). Quindi Walt Disney era un delinquente intellettuale perché in una storia mette Topolino nel pentolone di una tribù di selvaggi cannibali africani, dimostrando un’ignobile mentalità coloniale oltreché una grave predisposizione al razzismo. In nome di una democrazia mal compresa, un’inquisizione rieducatrice da rivoluzione culturale cinese ha eliminato dai piani di studio di alcune università americane Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald e cancellato scritti di Hemingway, persino di Shakespeare, Euripide, Sofocle, perché politicamente scorretti. E anche Robinson Crusoe è un razzista. Una parte della sinistra taccia di islamofobia chiunque osi formulare, non una critica ma un moderato interrogativo dubitativo sul radicalismo e il terrorismo islamici. Cinque anni fa, alla Columbia University il comitato che si occupa di vigilare sul multiculturalismo chiese di introdurre la lettura delle Metamorfosi di Ovidio con un avvertimento sul contenuto “offensivo e violento che marginalizza le identità degli studenti nella classe”. Nel 2020 Yale ha annunciato che avrebbe soppresso uno dei corsi più famosi dell’università, “Introduzione alla Storia dell’arte dal Rinascimento a oggi”, insegnato per decenni dal celebre Vincent Scully, perché troppo bianco, troppo europeo, troppo maschile, troppo “problematico”. Da sostituire con un nuovo corso sull’arte in relazione a “genere, classe e razza”. Purtroppo però Leonardo, Raffaello e Michelangelo sono tre banditi maschi, bianchi e occidentali e come disse in un’intervista al New York Magazine nel 1988 lo scrittore americano Saul Bellow, nato e cresciuto in un ambiente multietnico e plurilinguistico, premio Nobel per la letteratura nel 1976, “chi è il Tolstoj degli Zulu? Il Proust degli abitanti di Papua? Sarei lieto di poterli leggere”.
Bartlett dimostra che il fanatismo delle ideologie di decostruzione e le furie identitarie hanno conseguenze nella vita quotidiana e nelle relazioni fra le persone, persino fra genitori e figli. Maya demonizza Andy, lo attacca con argomentazioni violente e incongruenti, facendo la figura di una giovane somara presuntuosa e intollerante.
Il ruolo della figlia è affidato ad Adalgisa Manfrida, attrice che dà l’impressione, almeno in questo caso, di dover ancora trovare un suo modo, una sua originalità oltre le basi tecniche che le hanno insegnato in Accademia nazionale. Interprete interessante Lucrezia Forni nella parte di Natalie che ha presenza scenica, personalità e lavora bene sulla battuta, a parte un paio di esitazioni. La regia di Patti è ben camuffata dalla prova monologante di Quaglia nella prima parte, mentre nella seconda si concentra sullo scontro fra i personaggi, non solo ideologico ma di caratteri, seppur sotto l’aspetto dei movimenti e della prossemica, si sente qualcosa di irrisolto, come se rapporti spaziali e situazioni psicologiche non sempre coincidessero.

Marcantonio Lucidi,
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