“Maison mère” di e con Phia Ménard, al teatro India di Roma

Maison mère

Una stanza piena di vuoto

Se c’è una cosa che non muore mai è la roba vecchia. A proposito dello spettacolo Maison mère, drammaturgia della francese Phia Ménard (e Jean-Luc Beaujault), regia di Phia Ménard, scenografia di Phia Ménard, con Phia Ménard (è sempre la stessa persona perché, si sa, il teatro è un’opera dell’ingegno collettivo), vale la pena andare a rileggere una constatazione di un grande artista e innovatore italiano, Leo De Berardinis, il quale nel 1983 dichiarava: “E, a ben vedere, ci arrivavano dall’America cose che in Europa avevamo già fatto. Mi sembra ridicolo ricevere Brecht o Artaud dall’America. Julian Beck ha scoperto Artaud, Brecht e Pirandello negli anni Cinquanta. Mi chiedo perché noi prestiamo tanta attenzione al Living, invece di preoccuparci delle responsabilità della cultura italiana. Dall’America queste cose ci sono tornate a livello mercificato, come è arrivata la droga”.
Questo spettacolo invece ci torna indietro dalla Francia, come ci è arrivato il camembert, e sembra un’imitazione della scuola sperimentale romana di mezzo secolo fa, quando l’Italia era il centro mondiale della ricerca teatrale. Naturalmente rimesso au goût du jour, per dirla nell’idioma di Gigi quattordicesimo, al gusto del giorno, il piatto è proprio lo stesso, solo che è un bucatino all’amatriciana come se ne scodellano in qualche pizza-pasta per turisti dietro il Pantheon. Bisogna ringraziare il Teatro di Roma che ha proposto Maison mère all’India e la fondazione Nuovi Mecenati che ha sostenuto la Compagnie Non Nova della Ménard per lo spettacolo perché si tratta di una piccola conferma di quanto i francesi debbano agli italiani. Infatti chi s’è trovato fra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta ad assistere a un po’ di operazioni della ricerca teatrale parigina di allora, aveva sovente l’impressione – a parte casi particolari di grandi innovatori, per esempio il parigino inglese Peter Brook – di trovarsi davanti a dei mini don Chisciotte, simpatici, innocui, che non perdevano la battaglia contro i mulini a vento perché non riuscivano proprio a trovarli nelle vaste pianure della sperimentazione. Molti non erano nemmeno spettacoli brutti, per sbagliarli bisogna comunque avere un progetto, non fosse che truffaldino. Quando andavano in scena, non succedeva niente.
Sul sito dei Nuovi Mecenati si legge che la fondazione si propone “di sostenere la circolazione di opere e di artisti francesi sul territorio italiano”, concetto ribadito su un’altra pagina per chi non avesse inteso: “favorire la diffusione della creazione francese in Italia”. Si tratta di una fondazione franco-italiana istituita nel 2006 dall’ambasciata di Francia, con soci fondatori italiani (Susanna Agnelli e il diplomatico Luigi Guidobono Cavalchini Garofoli), attualmente è presieduta da un italiano (Ludovico Ortona), l’ambasciatore Christian Masset fa il presidente onorario, il consiglio di amministrazione è formato da cinque italiani, tre francesi e un danese. Questo è un caso classico di colonialismo culturale della République che usa anche gli indigeni dei paesi da conquistare o già conquistati per spingere, esportare e imporre i suoi artisti e letterati. In queste cose, nel vendere al mondo merce culturale anche contraffatta, i francesi sono i più astuti. Allons enfants.
Così arriva lo spettacolo della Ménard, la quale si presenta alla platea dell’Argentina in minigonna di cuoio nero su pantacollant grigiastri, stivali con tacchi di metallo e paraginocchia: una specie di Tank girl, famosa eroina dei fumetti punk. Con dei pannelli di cartone pressato, incomincia ad assemblare una casa, un parallelepipedo alto circa tre metri tenuto insieme con lo scotch. Per circa un’ora e mezza, lavora e cammina attorno alla costruzione a gambe larghe coi tacchi a martellare il palco, una Calamity Jane che va a un duello con la Colt sei colpi e una bottiglia di tequila. Tutto senza una parola, ma non nel silenzio purtroppo perché le casse acustiche diffondono una campionatura di suoni vari. L’attrice – la performer? la black punker? assembla le lastre di cartone, le lega con interi rotoli di nastro adesivo da imballaggio, ogni tanto gira e rigira l’enorme parallelepipedo, tenta invano di alzarlo per rovesciarlo, prende una motosega e ne taglia le pareti a grosse listelle in modo da ottenere un effetto carcere. Tutte le interpretazioni sono possibili, a seconda dell’umore e dell’indole dello spettatore, tanto Tank girl non parla mai. A scelta: la crisi della civiltà occidentale, la fine della civiltà tout court, il crollo del mercato immobiliare, la galera dei rapporti interpersonali, la gabbia familiare, il complesso di Papillon e le carenze delle carceri (da sempre insufficienti in Italia, ma anche i francesi hanno i loro  problemi), la sindrome del bed and breakfast, lo sfogo dell’impulso omicida verso il professore di “gestione del cantiere e sicurezza dell’ambiente di lavoro” all’istituto tecnico per geometri di Trepalle (provincia di Sondrio). Oppure, siccome il titolo è Maison mère, Casa madre, si tratta forse di un’edificazione del complesso di Elettra.
Si può pensare anche che Ménard abbia tratto ispirazione dalle Occupazioni insolite di Julio Cortázar: costruire un patibolo in giardino, recuperare un capello caduto nel buco del lavandino, montare un fissatigre per fissare le tigri. Che c’è di male allora ad innalzare un cubo su un palcoscenico? Nulla. Se lo avesse fatto Buster Keaton – il quale aveva piuttosto il cruccio che le case gli cadevano addosso – il pubblico avrebbe sradicato le poltrone dal ridere. Ma Ménard si prende molto sul serio. Sa di realizzare una cosa fondamentale per la coscienza dell’umanità e assume un’aria accigliata, pensierosa, alla Sarkozy durante i bombardamenti dell’Armée de l’air, l’aviazione, in Libia. I francesi sono degli italiani di cattivo umore, diceva Jean Cocteau. Il bombardamento invece in questo caso è quello della macchina per l’effetto pioggia. L’acqua viene scaricata a catinelle sul parallelepipedo perché purtroppo “a Roma quando piove, piove”, dice il grande scrittore francese Pierre de Banal che ha anche cesellato un altro famoso aforisma: Se non è zuppa è carton bagnato. Il cartone pressato s’infradicia e prende a cedere finché la casa crolla mentre un’altra macchina, stavolta quella del fumo, incomincia a sospirare con forza. Ora, il fatto che il cubo venga rovinato dalla pioggia non appartiene alla maniera punk. Un punk è provocatorio e violento, rifiuta la società, pratica la distruzione di persona, devasta con le proprie mani e non si affida a un evento naturale. Invece qui si assiste a una tristanzuola dissoluzione, a un epilogo esangue che nulla ha del sanguinamento e della ribellione punk, al massimo è degrado junk, spazzatura.
Esiste anche un’altra possibilità: Tank girl non c’entra niente, è una citazione autoprodotta dallo spettatore, Cortázar una suggestione pedante, le case di cartone sono molto utili e l’abito non fa il punk, Ménard mette quei vestiti in quanto pratici per prendere l’autobus, andare al supermercato e fare un po’ di marketing teatrale. Oggi l’obiettivo non è più épater le bourgeois, sbalordire il borghese (il ceto medio è morto, viva il dito medio) che l’altra sera è uscito di sala a metà rappresentazione perché ha capito il trucco. Conviene piuttosto sbalordire il giovane, il quale non ha memoria perché non ha visto (non è colpa sua) e perché non ha letto (è colpa sua). Rimasto seduto ha applaudito, senza la memoria il mondo è sempre nuovo e scintillante come una poltiglia di cartone bagnato.

Marcantonio Lucidi,
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