“I maneggi per maritare una figlia” di Nicolò Bacigalupo, con Tullio Solenghi anche regista ed Elisabetta Pozzi. Al Quirino di Roma

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Vedi Genova e poi Govi

I maneggi per maritare una figlia è un pezzo di antiquariato teatrale che a rivederlo oggi al Quirino di Roma nell’edizione diretta e interpretata da Tullio Solenghi, protagonista femminile Elisabetta Pozzi, mostra quanto può essere giocosa, di gran mestiere e leggera, la tradizione della commedia italiana.
Il suo autore si chiamava Nicolò Bacigalupo (1837 – 1904), un genovese che per un modesto salario faceva l’economo al Comune della sua città e scriveva di notte. Non si ha idea di quanto costi all’arte la mania di costringere gli impiegati, le mezze maniche, i travet a lavorare e a servire l’idolo grottesco della produttività. L’unica decisione che possono prendere uno Stato e una società che non si vogliono disumani è di lasciare in pace gli artisti e di mantenerli, al massimo occupandoli – brevemente e senza costringerli alla fatica – in qualche mansione di piccola utilità pratica. Collodi lavorava come segretario della prefettura di Firenze, Italo Svevo stava in banca e successivamente nella ditta del suocero, Pirandello faceva l’insegnante all’Istituto superiore di magistero, Giuseppe Gioacchino Belli era impiegato all’ufficio del registro di Roma come Mallarmé a quello di Sens in Borgogna. Turgenev prendeva uno stipendio dal ministero dell’Interno, Puskin dagli Esteri, Gogol’ stava alle Finanze, Maupassant aveva lavorato alla Marina e all’Educazione nazionale (la nostra Pubblica istruzione). Prima di insegnare inglese nei licei, Verlaine era un piccolo dipendente del Comune di Parigi, Stendhal arrivato da pochi mesi in riva alla Senna trovò nel febbraio del 1800 un posto come impiegato d’ordine al ministero della Guerra (scappò subito però, già a maggio si era arruolato nell’armata del Primo Console, ossia il Bonaparte che scendeva in Italia). L’avventuroso Hermann Melville diventò ispettore doganale al porto di New York, ufficio da lui assolto con rassegnazione per quasi vent’anni, dal 1866 al 1885. E si potrebbe andare avanti così per un pezzo, comprendendo anche Franz Kafka che s’impiegò nel ramo assicurativo.
Il patto fra lo scrittore, romanziere. poeta o drammaturgo, il pittore, lo scultore, il musicista e la società, in particolare lo Stato, sarebbe semplice: io artista passo un po’ di carte o insegno qualcosa senza velleità carrieristiche, quindi senza disturbare nessuno, in cambio d’uno stipendiuccio, obolo necessario alla sopravvivenza materiale, e soprattutto in cambio di tempo, tempo, tempo, per pensare, osservare, ascoltare, ragionare e alfine scrivere, dipingere, comporre musica, fare teatro. Basta che dagli artisti venga fuori ogni tanto un quadro del valore d’un Picasso o un musical come Il fantasma dell’opera che ha incassato oltre cinque miliardi di dollari (più di quattro miliardi e mezzo di euro), per ripagare ampiamente la mano pubblica dell’esborso. Ma i burocrati non hanno fantasia, altrimenti sarebbero degli artisti.
I tre atti di Bacigalupo, datati 1895, che in dialetto genovese s’intitolano I manezzi pe maiâ na figgia, furono un cavallo di battaglia del grande attore Gilberto Govi (1885 – 1966) e di sua moglie Rina Gaioni (1893 – 1984). Come il romano Checco Durante e il milanese Piero Mazzarella, come Macario per Torino e Cesco Baseggio per Venezia (Eduardo è una questione è diversa, si trattava di un fuoriclasse, un genio), il genovese Govi era un artista della scena che sintetizzava l’anima della sua città. Nei giardini a lui dedicati di Punta Vagno, una statua lo ritrae con i suoi celebri mustacchi che Tullio Solenghi nella parte di Steva esibisce fieramente a sua volta. Il genovese Solenghi si è trasformato con trucco e parrucco (di Bruna Calvaresi) nel suo predecessore e la somiglianza, anche nei gesti e nel modo di muoversi è abbastanza impressionante perfino per chi, a causa dell’età, ha visto Govi solo in televisione, quando la Rai mandava in onda la commedia registrata nel ’59 (non in dialetto ma in lingua).
L’idea che questo grande attore del passato sia una maschera italiana fonda l’imitazione di Solenghi e tutta la sua regia, improntata a una rievocazione del modo di stare in scena delle vecchie compagnie di tradizione, per esempio la posizione sempre frontale degli attori rispetto alla platea, la voce molto portata per essere ben udita da tutti gli spettatori, la caratterizzazione marcata dei personaggi anche mediante il contrasto fra i ritmi dei vari interpreti a seconda delle parti, dalla velocità della cameriera alla sorniona lentezza del padrone di casa. E la gerarchia dei ruoli secondo il vecchio schema: il capocomico, la prim’attrice, l’attor giovane, l’attrice giovane, manca il generico primario che era l’avversario del protagonista, il capo dell’opposizione se si vuole, ma c’è la servetta proveniente dalla Commedia dell’Arte. E ci sono anche le due coppie di innamorati che rischiano di saltare in aria perché Giggia, l’intrigante moglie di Steva, agiato commerciante di spezie e prodotti coloniali, si affaccenda in maneggi per maritare la figlia, come dice il titolo. Il ruolo che fu di Rina Gaioni è affidato a Elisabetta Pozzi, anch’essa genovese, in genere interprete drammatica, la quale sembra molto contenta di fare per la prima volta una parte comica e si spende generosa nella caratterizzazione di una figura femminile sopra le righe, ambiziosa, vanitosa, leziosa. Nel primo atto si svolge fra Giggia e Steva, uomo pratico, semplice e di buon senso, che si lamenta perché non c’è niente da mangiare e la casa è trascurata, uno scontro verbale vivacissimo, coloritissimo, vero banco di prova per vedere se una coppia di interpreti funziona. Solenghi e Pozzi si danno a tutt’un gioco di battute e controbattute di grande effetto comico. Le femministe di oggi (e anche di ieri) volentieri seppellirebbero Giggia e Steva sotto una montagna di copie del Secondo sesso, il saggio di Simone de Beauvoir che il Vaticano mise all’indice nel ‘56, un anno prima che Govi portasse in scena con grande successo I maneggi al teatro Augustus di Genova. L’allestimento di Solenghi è ambientato nello stesso decennio e addirittura le scene e i costumi di Davide Livermore sono identici alla versione televisiva, persino nella disposizione delle sedie.
Allora sotto l’aspetto filologico, peccato che il secondo atto sia stato quasi del tutto soppresso insieme alla festa da ballo e a una serie di trovate e scene comiche che sicuramente avrebbero allungato le due ore di spettacolo (intervallo compreso) per retituire però alle platee di oggi un esempio molto riuscito e interessante di teatro brillante all’italiana. Un po’ come se a un tavolino a tre gambe Belle Époque adatto a richiamare gli spiriti degli antenati ne fosse stata strappata una. Molto buona la compagnia formata da Stefania Pepe che interpreta la bisbetica cameriera Comba (Colomba); Laura Repetto è la figlia Matilde e Isabella Loi la sua graziosa cugina Carlotta; Federico Pasquali fa Cesarino innamorato di Matilde ma senza soldi quindi rifiutato dalla figlia e dalla madre che gli preferiscono il benestante Riccardo interpretato da Riccardo Livermore; Pippo, l’amico allegro e sfaccendato di quest’ultimo, è affidato a Pier Luigi Pasino, mentre Roberto Alinghieri impersona l’avvocato Venanzio.

Marcantonio Lucidi,
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