“Il gatto” da Georges Simenon, regia di Roberto Valerio, con Alvia Reale ed Elia Schilton. Al Piccolo Eliseo di Roma

Il gatto

Mal d’odio

Émile possiede un gatto ed è convinto che ad avvelenarlo sia stata sua moglie Marguerite; lei ha un bel pappagallo e lui per vendetta lo uccide strappandogli le penne. Questa è la scena centrale de Il gatto, adattamento teatrale dell’omonimo romanzo di Georges Simenon allestito al Piccolo Eliseo con la regia di Roberto Valerio, interpretazione di Alvia Reale ed Elia Schilton (un terzo ruolo è affidato a Silvia Maino). Non è la prima volta che l’originale ha attirato l’attenzione della gente di spettacolo: fu portato al cinema nel 1971 da Pierre Granier-Defferre, interpreti Jean Gabin e Simone Signoret, e un paio d’anni fa venne messo in scena al Théâtre de l’Atelier di Parigi con Myriam Boyer et Jean Benguigui. L’interesse è naturale, il romanzo è un magnifico duello fra un uomo e una donna, teatralmente e cinematograficamente pregno di opportunità.
Tuttavia chi nell’allestimento di Valerio cercasse di Simenon una traduzione scenica del suo stile sobrio, del suo modo lineare ed essenziale di raccontare gli esseri umani, non la troverebbe. La regia è molto ridondante; i personaggi sono eccessivi; la drammaturgia di Fabio Bussotti è contorta, si va avanti, si torna indietro, si riprende, secondo una costruzione narrativa teatralmente non chiara (notoriamente un racconto può avere un montaggio letterario che non si addice alla scena). La storia in effetti è assai semplice: accadono dei fatti perché due coniugi, Émile e Marguerite, che si sono ambedue sposati in seconde nozze, si odiano. Non si parlano più e per comunicarsi informazioni essenziali, ma anche insulti, si scrivono dei bigliettini. Ognuno possiede la propria dispensa tenuta accuratamente sottochiave per la paura che l’altro possa avvelenargli il cibo. Lui è un operaio rimasto vedovo che ancora pensa alla moglie e lei una piccolo-borghese che aveva sposato un violinista, anch’egli morto e rimpianto. I due animali sono il simbolo delle loro diverse condizioni sociali e visioni del mondo: il gatto è quasi un randagio, un felino indipendente, da vicoli; il pappagallo invece è un esemplare da esposizione atto a soddisfare l’estetica perbenista della donna. Simenon scrive del cozzo di questi due soggetti così opposti e incompatibili che si sono uniti in matrimonio per sola paura della vecchiaia e della solitudine.
In questo spettacolo ci si è complicati la vita mettendo le cose sopra le righe, andando a esagerare un grottesco che è insito nella situazione e non ha bisogno di doping recitativo. La regia probabilmente non ha creduto nelle possibilità teatrali del romanzo e ha chiesto agli attori di segnare i personaggi con un pennarello evidenziatore.  I due attori ottemperano con mestiere ma non stemperano, al punto che il duello sembra più interpretativo, fra Alvia Reale ed Elia Schilton, che fra i personaggi, Émile e Marguerite. Allora non si va a vedere una storia di Simenon, se si eccettua la semplice trama, bensì una prova d’attori, che non è molto ma non è poco.

Marcantonio Lucidi,
Stampa Stampa

I commenti sono chiusi.