“Kent” di Marco Andreoli, regia di Cristiana Vaccaro, con Valerio Di Benedetto e Matteo Quinzi. In tournée sulle terrazze romane

Kent

Superman in un vodka martini

Kent, commedia a due personaggi di Marco Andreoli, è uno spettacolo in tournée sulle terrazze romane. Non è un’idea nuova fare teatro d’estate agli ultimi piani (gradevole variazione rispetto alle cantine invernali), però stavolta il luogo è particolarmente consono al testo perché vi si parla di Superman, un tipo che, come noto, ama volare per tetti al pari dell’Uomo Ragno. La mitologia supereroica americana non apprezza l’ascensore, idea europea di trasporto in verticale invero assai comoda che Vitruvio attribuisce al genio di Archimede di Siracusa.
Messo in scena da Cristiana Vaccaro che dirige Valerio Di Benedetto e Matteo Quinzi, lo spettacolo incomincia con un tizio, Pietro, che si vuole suicidare buttandosi dal tetto di un grattacielo. Arriva però Salvatore che lo convince a non compiere quello che nelle vecchie cronache di nera veniva chiamato “l’insano gesto”. A questo punto parte un dialogo nel quale s’apprende che tutt’e due sono in crisi, hanno questioni personali con delle donne, che uno è un giardiniere licenziato e guadagna due soldi travestendosi da Superman alle feste dei bambini e che l’altro fa (ovviamente) il giornalista e quindi è il vero Nembo Kid, come venne inizialmente chiamato in Italia. Questa simpatica storiella, fresca e leggera come il ponentino romano, vorrebbe avere delle ambizioni, esplicitate da un comunicato di presentazione dello spettacolo: “In fin dei conti, dietro la faccia di un uomo qualsiasi, può sempre nascondersi sia un mostro che un supereroe. Kent è una commedia rapida che racconta gli inganni della morale”.
Kent è una commedia un po’ troppo rapida, dai dialoghi comunque scritti con buona mano, che non riesce a fare vedere di quali inganni della morale parli. C’è un colpo a sorpresa finale, ma la terribile nefandezza che rivela viene appiccicata come un francobollo al testo perché nulla di quanto è avvenuto in precedenza conduce per logica conseguenza, per meccanismo drammaturgico, a un simile epilogo. I due protagonisti sono dei trentenni un po’ sperduti, senza gran carattere, senza forza interiore, né capacità di assurgere a una dimensione tragica o comica che assicurerebbe loro la qualità di metafore di una condizione umana o almeno generazionale. E il fatto che Superman tutto sommato non sia altro che un povero diavolo fa sorridere ma non è particolarmente originale, anche perché già nel fumetto inventato da Jerry Siegel e Joe Shuster, Clark Kent, ossia l’uomo d’acciaio in civile, appare come un occhialuto e timido giornalista a cui un caporedattore darebbe da fare al massimo la conferenza stampa del sindaco di Metropolis.
Il difetto di questo tipo di drammaturgia è di non avere ambizione, malgrado dichiari il contrario, di occuparsi di cose piccole che non diventano grandi, di non riuscire a trasformare la tragedia dei personaggi di essere nulla in una tragedia del nulla. Si tratta di un naturalismo minuscolista. Nondimeno vi è una certa buona grazia nella regia che allestisce lo spettacolo con attenzione e precisione. I due attori – Valerio Di Benedetto fa Superman, Matteo Quinzi è Pietro – lavorano anch’essi con professionalità, anche se il primo dimostra di avere un lato malinconico che lo rende interessante. Ma appunto, lo spettacolo è tutto “comme il faut”, corretto, preparato come un vodka martini al bar d’una terrazza d’albergo. Ma il vodka martini, diceva James Bond, deve essere agitato, non mescolato.

Marcantonio Lucidi,
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