“Forme” scritto e diretto da Riccardo Caporossi, interpretato dagli allievi della Scuola del Teatro di Roma. All’India

FORME di Riccardo Caporossi - foto di G. Scrugli.08

La dimora del significato

Non bisogna avere fretta: il nuovo spettacolo di Riccardo Caporossi, Forme, si svela lentamente all’anima e al pensiero dello spettatore e li invade, li occupa, con la sua meccanica di precisione scenica e la potenza, la moltiplicazione architettonica di significati che una simile costruzione teatrale genera. Allestito all’India con gli allievi attori della Scuola di perfezionamento del teatro di Roma, Forme è un discorso sui contenuti attraverso la geometria messo in scena da un artista unico in Italia, il Cap della coppia Rem e Cap prima della scomparsa di Claudio Remondi tre anni fa.
Lo spettacolo incomincia con una scena forse più necessaria al regista che al pubblico, con dei personaggi pirandellianamente in cerca di autore che sono un uomo in frac con mantella, bastone e cilindro, un carabiniere, una sposa, un prelato. Sono forme di personaggi, non si sa da dove vengano, dove vanno, vagano nell’istante presente, orfani di significato perché nell’uomo significare qualcosa necessita di un passato e di un futuro, ossia di una storia da raccontare e di un progetto da realizzare che diventa a sua volta, nel suo farsi, memoria. Questo inizio, più intellettuale che artistico, un po’ didascalico addirittura, sembra provenire dal desiderio di spiegare piuttosto che di rappresentare. Ma quanto avviene dopo, e per tutta la durata dello spettacolo, basta a se stesso, parla con precisione e al contempo offre più piani interpretativi, secondo l’idea che la libertà dello spettatore sta nello scegliersi l’angolazione che preferisce, o che più è congeniale alla sua geometria della mente. Quindi il gioco è questo: cercare nello spettacolo l’idea evidente e trovare quella nascosta. Dodici attori in tuta e casco da operaio trasportano sessanta travi di legno per montare, smontare e rimontare delle strutture sempre più complesse, dei veri e propri edifici, delle “dimore di significati”, muovendosi con metronomico ritmo, con sincronia perfetta, quasi ipnotica. Lasciarsi trasportare da questo movimento permette di scoprire che i gesti sempre uguali di sollevare, spostare e posare le travi, generano edifici sempre diversi, perché non è il gesto che conta, se non per la sua funzione pratica, ma la volontà costruttiva che lo anima. “Forme sono i concetti, gli ideali, le abitudini , i doveri che ci imponiamo”, scrive Caporossi nelle note di regia. Ma poi parla di “una dimensione più misteriosa delle cose, più incerta e confusa a noi stessi: ineffabile”.
Allora si può tentare di entrare nell’ineffabile, in questa dimensione così visuale d’un uomo di teatro nato architetto, così scarna di parole, solo quelle necessarie: “Ami il tuo prossimo? Preferisci il rimorso? Preferisci il cibo? Preferisci uccidere?” Si sta sulla domanda come su un trapezio, di notte, a mezz’aria. La prima costruzione è quadrata e quand’essa è terminata, dei personaggi in saio la circondano, seguiti da altri vestiti di camici bianchi da laboratorio. Il quadrato come forma della logica razionale dice del pensiero classificatorio, sperimentale, scientifico, dell’indagine sul mondo fisico. Smontate, le stesse travi servono ad innalzare un tempio sulla base di due triangoli. Il triangolo suggerisce il divino, il religioso, il metafisico. Tornano i personaggi in saio, non quelli in camice bianco, entrano nel tempio ed intonano una litania che lentamente diventa evocazione di canto gregoriano. L’uomo si rivolge all’inconoscibile, all’inspiegabile, a una vastità irriducibile a ogni categorizzazione e definizione. Sempre con lo stesso ritmo di decostruzione e ricostruzione, lenti ed implacabili gli operai con il loro capocantiere, simbolo di un potere governatore e di un ordine statutario, socialmente ingegneristico, innalzano due grandi sculture che possono ricordare le opere in ferro di Toni Benetton. Questa è la terza grande dimensione dell’agire umano insieme alla scienza e alla metafisica: l’arte. E l’arte qui è gioia, gli operai danno vita a un concertino per percussioni sul legno delle sculture mentre altri due attori manovrano in verticale le travi in una specie di danza o di combattimento. Grande fracasso liberatorio, esplosione delle ferree regole che fino a quel momento hanno guidato i movimenti e le operazioni degli attori, l’arte è forma e liberazione dalla forma, libertà generata dal rigore, triangolo e quadrato contemporaneamente, l’uomo non più di fronte alla natura naturata e alla natura naturans, alla creazione e al Creatore, ma di fonte a se stesso, finalmente creatore a sua volta.

Marcantonio Lucidi,
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