“Preamleto” di Michele Santeramo, regia di Veronica Cruciani, con Massimo Foschi, Manuela Mandracchia, Michele Sinisi, Gianni d’Addario e Matteo Sintucci. Al teatro Argentina di Roma.

Preamleto - regia veronica cruciani

Potere o non potere, questo è il problema

Di fronte al Preamleto di Michele Santeramo, chi ancora affermasse che la drammaturgia contemporanea italiana è di scarsa qualità potrebbe essere tacciato di connivenza con il colonialismo culturale delle potenze straniere. Messo in scena all’Argentina di Roma con la regia di Veronica Cruciani, il testo è l’esempio di una vitalità dei nostri autori di teatro che si percepisce chiaramente andando in giro per spettacoli.
Preamleto non sarebbe un dramma, se si intende per dramma un testo teatrale fondato su un’azione conflittuale, perché Santeramo scrive sul rifiuto del conflitto. “Se mi hai amato, non vendicare mai la mia morte”, dice il re a suo figlio Amleto. L’autore immagina che il sovrano non sia stato ucciso da suo fratello Claudio e abbia continuato a governare fino alla vecchiaia. Oggi è il giorno del suo compleanno ma ha perso la memoria e non ricorda chi siano i personaggi che lo circondano, Amleto, la moglie Gertrude, Claudio e il consigliere Polonio. La memoria è uno strumento essenziale per l’esercizio del potere e la pratica della vendetta. “Io non so fare che questo: comandare”, dice il figlio. E il padre risponde: “ Tutti non sanno fare che questo: vendetta, assassinio, potere”. Tutti non sanno fare altro che richiamare alla mente e replicare il solo schema che conoscono, violenza, sopruso, ritorsione e di nuovo violenza, un meccanismo circolare nel quale l’umanità sembra intrappolata. Preamleto è una sorta di conte philosophique in forma teatrale che trova nella messinscena di Veronica Cruciani un ambito ideale nel quale dispiegare tutti i suoi significati e la sua forza di testo che ridicolizza il potere come principio grottescamente tautologico il cui unico scopo è il comando, cioè se stesso. Allora la storia del principe di Danimarca non è qui estrapolata, riadattata, strumentalizzata a giustificazione d’ogni trovata come tante volte è accaduto con i titoli di Shakespeare, ma un’opera originale e autonoma dal punto di vista estetico, poetico e filosofico. Questa è l’altezza del lavoro di Santeramo che non si limita a un’attualizzazione del tema shakespeariano del potere ma lo affronta in modo nuovo e laico rispetto alla sua mitologia e non risulta mai inferiore alla propria ambizione di affrontare la questione centrale, enorme, di questi nostri giorni.
L’azione si svolge in un bunker che non rimanda a una situazione hitleriana ma a una claustrofobia della mente, a una ottusa fissazione che ottenebra il pensiero dei personaggi e di cui solo il re è consapevole: lui sa che il potere, in tutte le sue manifestazioni, è una farsa che non vale la pena di recitare e che l’unica decisione salvifica è di non metterla più in scena. Ecco che lo spettacolo è shakespearianamente metateatrale, nel senso che si tratta di teatro che racconta di un teatro che bisogna rifiutarsi di allestire. Ma il figlio Amleto vuole comunque succedere al padre e recitare la parte che gli è stata assegnata; Gertrude briga per ottenere il comando e spinge Claudio a rivestire il ruolo di usurpatore che la Storia (e la Storia del teatro) gli assegna; Polonio invece resta se stesso perché il vigliacco, il servo del vincitore, è sempre un vigliacco, qualunque sia il dramma della vita e della scena nel quale è coinvolto. La paura è il fondamento sul quale si regge il potente, anch’egli un codardo che necessita di codardi. La farsa tragica del potere non potrebbe avere luogo senza la paura di non esistere, che genera la spinta irrefrenabile a comandare. “Essere non è possibile, questo è il problema” è la battuta centrale. Questo è il terrore.
Veronica Cruciani è una regista di grande acutezza formale e sostanziale: attentissima, accorda a perfezione lo stile della rappresentazione al significato del dramma di modo da non sprecare nulla del testo e attrarre lo spettatore fin dentro lo spirito dello spettacolo. È una regia critica (ma non straniata, non brechtiana) di un’artista della scena capace di tramutare in azione una propria urgenza di ordine intellettuale, un allarme sullo stato delle cose. Il gruppo di attori lavora in modo perfetto e si fonde con il testo e la messinscena senza uno scarto, un tempo morto, una tonalità imprecisa. Sono Massimo Foschi (Re Amleto), Manuela Mandracchia (Gertrude), Michele Sinisi (Claudio), Gianni D’addario (Polonio) e Matteo Sintucci (Amleto), un ensemble che si vorrebbe rivedere ancora, magari in altri allestimenti difficili da dimenticare come questo.

Marcantonio Lucidi,
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