“Yesus Christo Vogue”, uno spettacolo di Vucciria Teatro all’Orologio di Roma

Yesus Christo Vogue_ph Manuela Giusto (11)

Il telegiornale dell’Apocalisse

Uno dei luoghi comuni del teatro sperimentale è la nudità. Sembra quasi che se non mettono in scena degli attori nello splendore di come mamma li ha fatti, gli sperimentatori non siano del tutto convinti di operare nel senso della buona ricerca teatrale. Ora è vero che Yesus Christo Vogue, spettacolo della compagnia Vucciria Teatro in scena all’Orologio di Roma, è la storia di Adamo ed Eva e che la prima coppia andava in giro in tenuta adamitica perché evidentemente nell’eden un’ingegneria termoidraulica divina assicurava un gradevole clima temperato. Però questi in scena sono Adamo ed Eva non prima della Storia ma dopo, quando la fine del mondo è arrivata per colpa di un’umanità demente e distruttiva. Quindi i termosifoni celesti stavolta dovrebbero essere rotti – al contrario di quelli surriscaldati dell’inferno che si presume pieno di condannati – e girare nudi parrebbe sconsigliato.
Prima di entrare in sala agli spettatori viene fatto vedere un video montato come un blob con scene di bombe, sparatorie, morti, ammazzamenti vari, una piccola collezione di orrori che non aveva gran ragione d’essere perché poi in scena lo spettacolo è abbastanza esaustivo. L’umanità ha costruito un mondo ignobile che l’ha portata all’estinzione e si è dimostrata un esperimento di dio che si può definire fallito. Il Cristo è un tizio disperato accovacciato in un angolo, seminudo anche lui, con una bottiglia in mano. L’ultimo maschio e l’ultima femmina sono altrettanto disperati, bloccati fra la vita e la morte, non riescono né ad andare avanti né a suicidarsi, eppure è forse da un loro atto d’amore che l’umanità potrà ricominciare. Dal punto di vista dello spettatore si spera che un nuovo inizio non abbia luogo visto il clima apocalittico dello spettacolo.
Adamo ed Eva oltre la fine del mondo sono estremamente aggressivi, litigano e urlano in continuazione, si spintonano, si schiaffeggiano di parole a vicenda e insomma sono due tipini piuttosto feroci. Si capisce, dio si è ritirato definitivamente e li ha lasciati soli e sembra avere abbandonato anche il suo figliolo dimostratosi incapace di redimere l’umanità. Giusta punizione per l’inetto, vien da dire, al quale peraltro erano stati messi a disposizione tutti i poteri al fine di realizzare la missione.
Lo spettacolo è talmente violento, soprattutto nel testo, che ci si chiede se una vera critica alla società in cui viviamo non passi piuttosto per la dolcezza, atteggiamento questo sì oggigiorno sedizioso, forse persino rivoluzionario. L’amore, la bontà, la gentilezza, la mitezza potrebbero essere i coltelli che tagliano come una torta l’umanità in due, una destinata a tornare indietro e involvere definitivamente verso la scimmia e l’altra invece avviata a una nuova e salvifica spiritualità. Perché questo è uno spettacolo tutto sommato spirituale, cristiano, che ammonisce a smetterla di operare nella distruzione e in un modo un po’ contorto cerca di parlare d’amore parlando di odio. Ma alzare il pugno per indicare la via della saggezza resta un’operazione contraddittoria anche perché chi non vuole essere salvato sarà accontentato. La libertà concessa dal dio all’uomo è soprattutto di poter decidere fra la salvezza e la perdizione.
L’altro aspetto curioso di questo allestimento è che, pur essendo concepito, messo in scena e interpretato da artisti giovani, esso riprende tutta una serie di tic di vecchi gruppi d’avanguardia anni Settanta – Ottanta e non sempre dei migliori: le luci basse e tagliate, la semioscurità, una certa sciatteria recitativa che si disinteressa delle più elementari tecniche dell’attore, l’emissione vocale, la dizione, l’uso del microfono, la gestione del corpo, persino le proiezioni sono imprecise (si intravvedono delle scritte ma si rivelano illeggibili). Ci si chiede come e dove è avvenuta la trasmissione a questi giovani artisti di un’idea che i decenni passati hanno dichiarato fallimentare, ossia la convinzione che il teatro si giustifichi da sé, per il semplice fatto di essere messo in scena, che solo il messaggio conti senza stare a farla troppo lunga sulla strategia di comunicazione e che la poesia si elevi da sola per pura volontà, a mo’ d’uomo seduto in poltrona che pretenda di levitare con tutta la poltrona tirando sui braccioli.
Tuttavia una buona tecnica non serve per rendere più bello e più leccato lo spettacolo ma semplicemente per farsi bene intendere dal pubblico. La notevole fatica fisica dei tre attori – Joele Anastasi (il Cristo) che firma anche la regia e la drammaturgia; Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano (Adamo ed Eva) – appare allora sprecata per difetto di mestiere e innocua per eccesso di rabbia. Se si esce uguali a come si è entrati da uno spettacolo che programmaticamente intende colpire, vuol dire che l’effetto non supera quello di un telegiornale in onda mentre si mangia la colomba pasquale. Un tg dell’apocalisse, pur sempre soltanto un tg.

Marcantonio Lucidi,
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