“Ti regalo la mia morte, Veronika” di Antonio Latella, anche regista, e Federico Bellini

Ti regalo la mia morte, Veronika

L’illusione dell’intelligenza

Nel teatro, come nella vita, ci si imbatte a volte nell’illusione dell’intelligenza per la quale è necessario in effetti un certo talento illusionista. Lo si rintraccia sovente in chi riesce a imbroccare uno stile falsamente suggestivo, costruito su immagini sceniche deprivate di un reale significato e retoricamente emozionali, vuote e decontestualizzate ma aperte a qualsiasi contenuto lo spettatore ritiene di poter attribuire allo spettacolo. È un teatro del consenso, questo, perché scarica sulla platea la ricerca di senso. Siccome la natura umana ha orrore del nulla, immediatamente il singolo osservatore tende a riempire di sé, di quanto ha nella testa, ciò che vede. Condividendolo quindi, perché è lui a dargli significato.
Questo modo di fare teatro testimonia di un’irresponsabilità della regia, intesa proprio come il contrario di ciò che il più grande metteur en scène italiano del secondo Novecento, Giorgio Strehler, indicava appunto come responsabilità della regia. Tuttavia dei registi che nell’ultima decina d’anni hanno avuto fortuna con questo trucco, Antonio Latella resta forse il più astuto. Da questo punto di vista, l’ultimo suo spettacolo, Ti regalo la mia morte, Veronika (all’Argentina di Roma), dal film del 1982 Veronika Voss, penultima opera cinematografica di Rainer Werner Fassbinder, è un piccolo capolavoro di furbizia su testo dello stesso Latella e di Federico Bellini. Si incomincia con Veronika che si mette in proscenio e grida aiuto agli spettatori e si continua con un gruppo di attori travestiti da scimmioni bianchi che prendono posto su una fila di poltrone di legno da cinematografo.
Questi scimmioni che poi dismetteranno la pelliccia rivelando gente in mutande (in questo tipo di spettacoli c’è spesso gente in mutande) possono evocare molte cose, a scelta dello spettatore ovviamente: 2001, Odissea nello spazio e Il pianeta delle scimmie; anche delicati ricordi d’infanzia d’una gita allo zoo davanti alla gabbia dei primati che cercavano d’innaffiare di pipì i visitatori salvaguardati da una lastra di vetro; o ancora riflessioni amare sulla condizione dell’Uomo, questa scimmia peripatetica, no, questa scimmia patetica, ancora no, questo paté di scimmia oppure questa “scamiciata tempi” (anagramma di scimmia patetica). O tempora, o mores! Magari i bestioni rappresentano la droga che ucciderà Veronika perché si sa come si dice in questi casi: ha la scimmia sulla spalla. Si incomincia insomma con Tadeusz Kantor nella giungla. Kantor è stato uno straordinario innovatore ma ha avuto un torto involontario: dare delle idee a chi non se le meritava. Però le scimmie in effetti servono allo spettacolo: devono infatti scandire in coro fin nella punteggiatura il copione cinematografico di Veronika Voss, si-lla-ban-do le pa-ro-le in que-sto mo-do virgola da fa-re ve-ni-re il la-tte a-lle gi-no-cchia punto. Probabilmente questo coro deve rappresentare la riflessione di Latella sull’arte cinematografica, in ispecie fassbinderiana. L’ultimo quadro, un’ora e cinquanta dopo, è un ciliegio che cala sul palcoscenico. Cechov ha anche lui il suo torto senza colpa d’avere offerto delle giustificazioni a chi non le trovava. Attorno all’albero siedono in abiti ottocenteschi le donne di Fassbinder, Maria di Il matrimonio di Maria Braun, Margot di Paura della paura, Emma Küsters de Il viaggio in cielo di Mamma Küsters, la Martha dell’omonimo film ed Elvira, che però è un transessuale, di Un anno con tredici lune.
In mezzo a queste trovate, quella del ciliegio particolarmente irritante perché figlia della solita idea dei maschi, peraltro di qualsiasi tendenza siano, che le donne si devono riunire in loro onore, cosa succede? Nulla naturalmente. Gli attori si muovono, parlano e litigano in mezzo a una gran disordine di vestiti, scarpe e pellicce buttate in giro perché molti anni fa si è scoperto che la confusione delle prove teatrali è molto teatrale; nel frattempo su uno schermo passano delle immagini, questo delle videoproiezioni è diventato ormai un vizio delle nostre scene, a dimostrazione della scarsa fiducia che sempre più registi hanno delle immense, ed evidentemente sempre meno note, possibilità evocative della scena. Tutta questa confezione per dire quale è l’idea che Latella s’è fatta del film di Fassbinder, storia di un’attrice del nazismo caduta in disgrazia dopo la fine del regime e succube della sua neurologa. Questo è un teatro egolatrico, che celebra soltanto se stesso e non si cura minimamente dello spettatore, il quale deve solo limitarsi a metterci un significato credendolo quello del regista.
Diciamolo, una simile scena postcontemporanea neosperimentale tardoavanguardistica ha fatto il suo tempo, forse ha persino stufato fuorché quei critici e spettatori che ritengono il teatro tutto sommato un’attività reazionaria quando non esplicita la propria avversione all’arte del teatro. Ma il conformismo delle minoranze condanna simili constatazioni, ritiene dabbene mostrare in scena la masturbazione fisica e scandaloso rifiutare l’onanismo teatrale.

Marcantonio Lucidi,
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