“Niente più niente al mondo” di Massimo Carlotto, con Crescenza Guarnieri diretta da Nicola Pistoia

NIENTE PIU' NIENTE AL MONDO

Nessun cielo nella stanza

Sono circa dieci anni che Crescenza Guarnieri porta in scena Niente più niente al mondo di Massimo Carlotto, titolo tratto da un verso della canzone di Gino Paoli Il cielo in una stanza. Nel 2006 l’Italia e il mondo erano piuttosto diversi, Prodi vinceva le elezioni, Napolitano veniva eletto Presidente della Repubblica, George W. Bush era ancora alla casa Bianca e Jacques Chirac all’Eliseo, a Berlino gli azzurri vincevano il mondiale di calcio, la Nikon annunciava la fine della produzione di macchine fotografiche a pellicola. E la crisi non era ancora arrivata anche se il Paese era in crisi come al solito. Il monologo infatti si dimostra altrettanto attuale oggi che all’epoca, a riprova che gli artisti sono dei sensitivi. La protagonista è una proletaria che vive di stenti e di bottiglie di vermouth in un interno torinese miserevole, abitato anche dalla figlia e dal marito, che ora non ci sono ma tornano continuamente nel suo soliloquio. Pugliese, emigrata, va a fare i servizi in casa dei signori d’una Torino che dieci anni fa si presentava come una città post-industriale, post-operaia, post-umana, schiantata dalla crisi della Fiat. Oggi è più vivibile ma certamente non per questa donna. Ormai è completata la ricostituzione di una società divisa per classi dominanti e subalterne nella quale il censo e l’estrazione sociale tornano a fare premio sul valore e il merito. La condivisione dei seppur piccoli benefici che possono derivare da un miglioramento anche lieve della situazione generale è severamente interdetta. Il destino dei poveri è uno solo, diventare più poveri, perché il destino dei ricchi è diventare più ricchi. E così come nel 2006 erano ormai chiari anche ai ciechi i danni antropologici, culturali, economici che il berlusconismo aveva provocato, così oggi il tanfo d’immondizia che il renzismo ha già incominciato a emanare non promette nulla di buono a questa povera donna.
Non v’è speranza in questo monologo, il vuoto della bottiglia di vermouth rappresenta la condanna al nulla della protagonista, così umana malgrado tutto, così signora sotto la sciatteria della sua sottoveste comprata a dodici euro e novanta centesimi dai cinesi, da non perdere una schietta ironia. Ha ancora voglia di scherzare, forse ha ancora voglia di fare l’amore, e gira disperata come un insetto dentro il bicchiere rovesciato della sua vita ma con uno sguardo vivo su se stessa, sugli uomini, sul mondo.
Tutto questo Crescenza Guarnieri riesce a dirlo perché è un’attrice di prima classe, allieva di Orazio Costa, che fu un grande maestro di teatro e uno dei più importanti formatori europei di artisti della scena dal secondo dopoguerra fin quasi alla sua morte avvenuta nel 1999. S’intravvede nel modo di stare sul palco della Guarnieri, nell’uso della voce e del corpo, non soltanto una tecnica derivata dal famoso metodo mimesico di Costa, ma un insegnamento più alto del teatro come indagine sul mondo e sugli uomini, come perlustrazione di una realtà che non si esaurisce nel visibile ma sonda l’inesprimibile. L’inesprimibile a parole che però si può trasmettere, che gli spettatori sentono e che costituisce la differenza fra chi sale su un palcoscenico e chi è un artista. La regia di Nicola Pistoia, rivista nei giorni scorsi al Piccolo Eliseo, è tutta al servizio dell’attrice, una direzione di mano leggera, delicatamente ordinatrice, fatta di pochi segni – le buste della spesa sul tavolo, un paio di scarpe per terra – perché il centro dello spettacolo è una donna, un essere umano precipitato in un tempo che non si merita, in una colpa non sua.

 

Marcantonio Lucidi,
Stampa Stampa

I commenti sono chiusi.