“Piombo e cocaina”, la storia di Renato Vallanzasca al teatro Lo Spazio di Roma

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Uno spettacolo ci salverà

Nessuno o quasi può più permettersi ventiquattro attori in scena, salvo le compagnie amatoriali e le centinaia di accademie di teatro che ormai affliggono la penisola. È andato in scena allo Spazio di Roma un battaglione di allievi della scuola Teatro Senza Tempo che per massa umana poteva darsi a uno Shakespeare e che invece ha affollato uno spettacolo modesto, involuto, inutilmente arzigogolato, Piombo e cocaina – La storia di Renato Vallanzasca, scritto da Antonio Nobili e diretto da Pietro De Silva. Tuttavia bisogna consolarsi, è una fortuna che il Bardo non sia stato coinvolto.
Teatralmente parlando, e anche più in generale, l’Italia è diventata un posto dove i grandi spettacoli (nel senso quantitativo dell’aggettivo) se li possono permettere le scuole e gli amatoriali. Da paese di amanti a paese di amatori. Da maestri della scena a scolari. Si è scesi dal mestiere ai progetti di formazione. Una contrada di progetti, di oggetti senza soggetti, quindi irreale, surreale, subreale, subacquea. Al punto che persino la generosa e umile attività del filodrammatico, che un tempo aveva un senso, è scaduta. Si tolga il filo dal drammatico e tutti i bottoni cascano: si va in scena non per diletto ma per difetto, senz’arte però con parte. In una sala teatrale in genere la mestizia viene generata dal palcoscenico, quando si tratta di scuole e filodrammatiche anche dalla platea. La maggioranza del pubblico è costituita da genitori, parenti, mogli, mariti, amici, fidanzati, morose, che pagano un biglietto, alimentando la linfa economica del giro amatorial- scolastico, moltiplicando la crescita di magniloquenti ego casalinghi in marcia sicura verso l’attorale fama e la fame dell’attore, esortando il bello e bravo di mamma tua alla vittoria del gladiatore, del gladiattore, nell’arena, quanto affollata, del telecirco di fiction, reality, erection, pataccality gestito da ben più furbi reclutatori di carne umana.
Un paese in cui troppi abitanti pretendono di assurgere a protagonisti priapici, grottescamente esteriorizzati come lasciti induriti di cavallo; pochi aspirano ad essere donna e inclusivi, trasformatori, rigeneratori. Giammai spettatori salvo che del proprio consanguineo genio, perché l’irrefrenabile desiderio di sopravvivenza dei geni è di seminare i propri cromosomi nell’ultrapiatto della videogloria. Dal vanaglorioso al videoglorioso, si casca sull’uccello del Bongiorno – buonasera a tutti i telespettatori in cambio d’un pacco dopo il tg.
Tuttavia ci può essere un altro modo di vedere il fenomeno: questi ragazzi (e gli amatoriali) che si danno al teatro comunque camminano verso l’Uomo. Sono degli eroi di oggi che, circondati da indegne devastazioni culturali, tendono verso il bello, il sublime del teatro. Sono mossi da un’aspirazione alta, fare dell’arte, buona o cattiva non ha importanza. Frequentano un’accademia di arti sceniche e non per forza una curva di stadio, preferiscono pronunciare “essere o non essere” piuttosto che urlare “forzza Lazzio” o “viva la Romaaa” seduti su un divano assieme a compagni di sventura intellettuale. Credono che nelle loro vite ci sia spazio per l’impegno in un duro apprendistato che probabilmente non li porterà da nessuna parte se non verso ciò che è veramente importante, un’avventura della mente, del pensiero, dello spirito. Qualcosa ne resterà ed è pur sempre la cosa migliore.
Ecco perché lo spettacolo su Renato Vallanzasca non è giudicabile. Per quanto sbagliato e recitato con imperizia possa essere, rappresenta un gesto di persone, di esseri umani. E gli esseri umani vanno sempre salvati e protetti nei rifugi del silenzio e della comprensione.

Marcantonio Lucidi,
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