“Un posto luminoso chiamato giorno” di Tony Kushner allo Spazio di Roma

Un posto luminoso chiamato giorno

Innaturalità del naturalismo

Un posto luminoso chiamato giorno, titolo originale A bright room called day, in scena al teatro Lo Spazio di Roma, è un dramma scritto nel 1985, in piena era Reagan, dall’americano Tony Kushner che si svolge durante la fine di Weimar e l’ascesa di Adolf Hitler. Quindi si occupa di uno di quei momenti della Storia in cui il sipario cala su un periodo per rialzarsi immediatamente su quello successivo. Gli storici generalmente non condividono l’ipotesi che nel 476 d.C., anno della caduta dell’impero romano, lo spettacolo sul mondo antico si chiuda improvvisamente perché il giorno dopo incomincia quello sul mondo medievale. Ma al teatro sono dati degli strumenti d’indagine, in particolare sull’anima degli uomini, che le altre scienze umane non conoscono, e Kuschner li usa ampiamente. La regia dello spettacolo è di Vito Mancusi che dirige giovani attori usciti circa tre anni fa dal corso di recitazione del Centro Sperimentale di Cinematografia. Interpretano un gruppo di intellettuali progressisti berlinesi, un trotzkista, un sessuologo, un economista, un’attrice, che si ritrovano nella casa di Agnes, fervente comunista. Sono gente borghese, colta, incastrata fra un ideale rivoluzionario e la realtà inesorabile dell’ascesa del nazismo. A mano a mano che Hitler conquista il potere, il gruppo si disgrega e muore. Si tratta di un apologo sulla presenza costante del male nelle vicende umane rinforzato da una scena in cui appare il diavolo e da una serie di interventi ricorrenti di un personaggio volutamente anacronistico, un’operaia americana degli anni Ottanta che riflette sulla follia del sistema politico e finanziario statunitense.
È chiaro che Kushner ha pensato un dramma costruito su un’idea della storia che concepisce Satana, o comunque il male, sempre in azione e sempre mutevole nelle sue manifestazioni, come d’altronde lo è in maniera particolarmente astuta e violenta in questo periodo. Ha voluto cioè scrivere un testo che non invecchiasse, fondato su un insegnamento. Questa è una forzatura che si sente nel corso dello spettacolo, un po’ troppo lungo, a volte tortuoso, il cui guadagno in pedagogia viene pagato con una perdita sul piano della forza metaforica. Si tratta chiaramente di una scelta consapevole dell’autore perché comunque l’azione c’è, la storia vale, i personaggi sono ben disegnati. Gli otto giovani attori in scena sono preparati ma scontano un vizio di moda da un po’ di anni: credono che per rendere più significativi e sofferti i loro personaggi si debba parlare fra i denti, a mezza bocca, come se le parole dovessero cadere sulle loro scarpe. Hanno insegnato loro che così fa più vero, più moderno, meno teatrale, perché il teatro è una cosa antiquata. Così gli spettatori perdono pezzi di dialogo, pur avendo cercato parcheggio per andare ad ascoltare e capire. Questa mania, che alcuni registi apprezzano molto, rende questi giovani interpreti vieppiù simili nel loro modo di recitare. Evidentemente hanno ricevuto al Centro sperimentale una formazione che li ha uniformati e iscritti al modello standard della recitazione professionistica, in ispecie televisiva. Questo modo di essere attore naturalistico (naturalistico, non naturale) è ciò che il sistema produttivo attualmente chiede (nel migliore dei casi): vuole professionisti della recitazione, non artisti, dei bravi ripetitori, non degli interpreti. La semplificazione e la standardizzazione dei modelli recitativi rende i processi della grande industria della fiction, più facili, veloci ed economicamente redditizi. Per la produzione e la distribuzione delle merci è meglio che gli imballaggi siano tutti della stessa misura e le uova quadrate. Per un attore dal punto di vista lavorativo non è un male, dal punto di vista artistico non è un bene. In scena lavorano Anna Ferraioli, Ravel Andrea Lucente, Chiara Paoli, Simone Ruggiero, Sabrie Khamiss, Ilaria Marcelli, Michela Ronci, Matteo Vignati.

Marcantonio Lucidi,
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