“Un atto unico non compiuto” di Marco Maltauro” al teatro T di Roma

Elogio dell’incompiutezza

Uno stanzone che dà direttamente sulla pubblica via, in una strada vicina al Ponte Testaccio, una specie di negozio del teatro che si apre e fa entrare il pubblico, in attesa sul marciapiede, solo quando la rappresentazione sta per incominciare. I biglietti si comprano al bar dirimpetto che così vende anche qualche aperitivo agli spettatori. Il Teatro T è un posto perfetto per lo spettacolo di Marco Maltauro, autore e regista di Un atto unico non compiuto. Qui tutto è un elogio dell’incompiutezza, lo spazio, il testo, gli attori, le luci che hanno la primaria funzione di illuminare fasci di buio. Quello di Maltauro è un programma estetico contro la pièce bien faite, il dramma da sofà, da classe media irriflessiva, non è neanche un teatro da cave parigina, da cantina esistenzialista, o da catacomba per artisti disintegrati (non integrati). È un teatro da rifugio sotto un bombardamento. Mettiamola così: fuori c’è una guerra, economica, sociale, soprattutto culturale e di civiltà; si distrugge l’arte con metodo in apparenza meno bestiale dell’Isis, ma di certo più ipocrita. Anche il pubblico quindi è nel rifugio e dopo la rappresentazione sotto il bombardamento si ritrova direttamente sulla strada ad osservare un po’ di macerie. In questa situazione la compiutezza non ha nessuna importanza, anzi può persino essere d’intralcio all’atto di resistenza che si concretizza nel puro agire, ossia nell’atto stesso del fare teatro. Quindi la vicenda che Maltauro narra potrebbe essere definita più che elementare, addirittura una storia qualunque: in scena due personaggi, il primo guarda un porno su internet, il secondo medita di suicidarsi. Non c’è nessuno psicologismo, sono due esseri umani che iniziano e finiscono con le rispettive modalità di autodistruzione, la compulsione e la depressione. La gabbia coincide esattamente con la persona e l’unico modo per uscirne è la violenza verso l’altro. Ma siccome neanche questa strada è percorribile, perché le due violenze, uguali e opposte, si annullano, per scappare non resta che rivolgersi contro se stessi. Uno mediante la masturbazione, l’altro con la meditazione trascendentale. Perché anche la meditazione, se attuata da menti impreparate, può diventare come l’onanismo una fuga codarda dal mondo. Lo spettacolo contiene in sé un sottile paradosso: è uno spettacolo di resistenza contro coloro che rinunciano a resistere. Quindi è uno spettacolo politico. Ed ecco che Maltauro ha trasformato la banale storia di due personaggi che rappresentano due luoghi comuni di oggi, la pornodipendenza e la depressione, in un’indagine sui cadaveri che giacciono sotto le macerie.
In scena, Andrea Carpiceci (il pornomane) e Fabio Matteo Maffei (il suicida) hanno il pregio di astenersi dalle forzature, che qui sono una vera tentazione e getterebbero lo spettacolo nello strapiombo della volgarità. Non tanto la trivialità del sesso ma quella della recitazione che scade nell’eccedere con il personaggio. La regia è accorta – qui si sta nel rifugio del teatro, non nella fogna – e chiede misura per evitare di trasformare i personaggi in macchiette nevrasteniche di una modernità franata. Altrimenti lo spettacolo perderebbe la severità del suo sguardo e diverrebbe esso stesso una povera piccola rovina del nostro tempo, una banale macelleria di anime.

Marcantonio Lucidi,
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