“Sarabanda” di Ingmar Bergman, regia di Roberto Andò, con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton e Caterina Tieghi. All’Argentina di Roma
Gli eterni ritorni della fine e dell’inizio
Gli esseri umani sono dei mostri però tutto sommato possono avere una loro bassezza. Oppure si potrebbe pensare osservando al teatro Argentina di Roma il capolavoro di Ingmar Bergman, Sarabanda, che gli uomini sono delle creature basse ma tutto sommato possono avere una loro umanità. Contrariamente a un’opera, per esempio, di Shakespeare che sopporta anche attori scarsi e messe in scena scadenti, il dramma bergmaniano accetta solo attori bravissimi e regie raffinate. Quindi alla direzione di interpreti eccellenti c’è Roberto Andò la cui idea registica ha trovato in Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton e Caterina Tieghi gente che ci sa fare, dotata non solo di tecnica rimarchevole – il governo della voce, la modulazione dei toni, l’atteggiamento prossemico nella relazione fra i diversi personaggi. Hanno tutti la particolare qualità che li eleva da esecutori, per quanto bravi, ad interpreti, ossia artisti. Si prenda per esempio la prima scena fra Alvia Reale e Renato Carpentieri: interpretano Marianne e il suo ex marito Johan, divorziati, l’amore è fallito molti anni fa, ma fra loro corre una dolcezza complice che li unisce e al contempo testimonia la distanza. Teatralmente, l’affetto fra due anime è un sentimento più difficile da restituire dell’amore e i personaggi in questione sono più complicati da costruire, da assemblare nei gesti, nei toni e appunto nella prossemica. Ma l’assemblaggio si può manifestare come costruzione da mattoncini Lego e rischia di apparire recitazione ingegneristica; invece i due attori lasciano scorrere la loro interpretazione come un fluido. Ovviamente queste impressioni possono essere false e i due artisti lavorare in verità come matematici della recitazione, o peggio geometri del dialogo, però ciò che conta è proprio l’impressione che essi suscitano, la naturalezza, la fluidità che viene dall’arte di dire la battuta non perché sta scritta sul copione ma perché è la sola che può essere detta in quel dato momento, in quella circostanza. Elia Schilton ha lo stesso tipo di atteggiamento interpretativo, anche se la sua parte è più pesante, nel senso di più drammatica, il personaggio è meno simpatico e non possiede la spietata leggerezza, l’ironica ferocia con le quali Carpentieri asseconda il suo Johan. Schilton è Henrik, violoncellista figlio di Johan (ma non di Marianne) e genitore della diciannovenne Karin, anche lei violoncellista e molto promettente, alla quale è legato morbosamente. Padre e figlia sono le due figure nuove che non apparivano in Scene da un matrimonio di cui Sarabanda è il sequel trent’anni dopo. Sono personaggi che rendono il lavoro drammaturgicamente autonomo e liberano dalla necessità di conoscere il titolo precedente. Inoltre Sarabanda nasce come film (per la televisione), l’ultimo di Bergman, ma ha una struttura molto adatta al teatro che esalta la crudezza delle relazioni familiari, la concentra come una lente il calore del sole.
Henrik va dal padre a chiedergli un anticipo di eredità per comprare un pregiato violoncello Fagnola per Karin che dovrà presentarsi all’audizione di ammissione in conservatorio: la scena è una caduta nella ferocia verbale, un fuoco d’astio, un bollore di rancore che rievocano a chiunque abbia combattuto le guerre familiari un particolare peso delle parole, una strategia di strumentalizzazione della memoria, un godimento per la sofferenza dell’altro, un’ingordigia dell’odio. Pasti terribili di anime cannibali.
Le dieci scene che compongono il dramma sono tutte costituite da dialoghi a due. Come una sarabanda, danza grave e lenta per coppie. Si tratta di una soluzione che dispiega i grandi benefici della lentezza, o meglio di una calma nell’azione scenica che agisce come il silenzio prima e dopo uno sparo, assai più efficace d’un botto nel frastuono. Naturalmente la situazione drammaturgica coincide con la condizione scenica voluta dalla regia di Andò: tutto appare molto tranquillo, il furore si intensifica nella compressione, la scenografia semplice – poche cose, tutte necessarie – di Gianni Carluccio sono da lui stesso illuminate su un fondo nero, ma non si tratta del solito caravaggismo, piuttosto l’occhio vede Jan Vermeer. Sono la raffinatezza e la precisione le cifre compositive dello spettacolo che si sostanziano nell’accuratezza del lungo, importantissimo monologo di Karin interpretata da Caterina Tieghi, la quale dimostra di avere la capacità di stare in una compagnia di tale levatura. La tirata incomincia così: “Ci sediamo uno di fronte all’altro con il nostro strumento, il leggio in mezzo. Abbiamo lavorato sul quarto movimento. quel maledetto Hindemith ha scritto sulla partitura: «Quartine vivaci senza alcuna espressione e sempre pianissimo». Capisci? Io me ne sto lì seduta col mio cervello mestruale in tilt e dovrei essere vivo senza espressione. Ho chiesto di saltare la lezione, ma papà è stato irremovibile”. Dentro a quelle due parole, “cervello mestruale”, si aprono distanze incolmabili, visioni incomunicabili, un pessimismo non guaribile sulla famiglia, la vecchiaia, la solitudine, gli esseri umani stessi. Quella di Bergman è una lotta contro il mondo e contro la morte, quindi destinata alla sconfitta. Una disperazione filosofica che la scelta finale di Karin forse, soltanto forse, confuta con l’annuncio di una nuova vita. A meno che non sia l’eterno ritorno della fine che sempre ricomincia dall’eterno ritorno dell’inizio.