“Sabato, domenica e lunedì” di Eduardo De Filippo, regia di Luca De Fusco. Con Teresa Saponangelo e Claudio Di Palma. Al teatro Argentina di Roma

Sabato domenica e lunedì

La famiglia, il ragù e la pazienza di Giobbe

Nelle due grandi scene di Sabato, domenica e lunedì, l’enorme litigata fra Rosa Priore e suo marito Peppino nel secondo atto e la dolcissima riappacificazione nel terzo, si vede perfettamente la dimensione del talento di Teresa Saponangelo e Claudio Di Palma.
Interpreti così importanti fanno pensare che il teatro italiano non ha nulla da invidiare ai blasonati inglesi. Ma la loro arte sta in primis laddove è più nascosta, in quei lunghi momenti di silenzio nei quali Peppino per tutto il primo atto e metà del secondo poco dice e nulla fa. Spesso seduto, a tenersi in corpo quel gigantesco rospo che non viene fuori, la pietra di rancore e gelosia che gli blocca la fame e gli impedirà di mangiare domani domenica al pranzo familiare i maccheroni al ragù. Di Palma è continuamente in controscena, discosto dal resto dei parenti, a mugugnare e rimuginare. Lancia battutine alla moglie come colpetti di spillo, perché sa che a forza di punzecchiature si provocano ferite che sono squarci sanguinolenti. Il broncio sta sul volto di Peppino da mesi ma oggi s’è fatto più duro e l’attore se l’accomoda per andare verso il primo breve scontro, un preludio, con espressioni accennate, gesti brevi, movimenti parchi, mutismi profondi e neri come tombe di notte. Ogni tanto moglie e marito scaramucciano e lei, Rosa, in cucina prepara il pranzo della domenica, scarica il nervosismo sulla cameriera Virginia che ha i crucci suoi (“E invece devi tenere pure la testa qua, se no ti licenzio e buonanotte”.), sul figlio Rocco (“Vatténne se no te rompo un piatto nfaccia”.), su chi le viene a tiro. Non sul marito però che Saponangelo evita fisicamente facendo finta che non c’è e al contempo rendendolo vieppiù presente, pesante.  La tensione si taglia con lo stesso coltello della carne per il ragù e l’attrice fa la mamma corrucciatissima ma al contempo attenta a tenere la famiglia sui binari giusti. Sua figlia Giulianella ha trattato a pesci in faccia il fidanzato, Federico, e Rosa lo rassicura: “Aspettate, sentite a me. Adesso Giulianella ci ragiona sopra e quando sale fate pace”.
La famiglia è come il sugo della domenica. “La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la pazienza di Giobbe”, dice la padrona di casa in apertura del dramma di Eduardo. Sabato, domenica e lunedì, in scena all’Argentina di Roma con la regia di Luca De Fusco, è una commedia perfetta. Costruita dall’autore con la stessa attenzione necessaria a fare i maccheroni al ragù e così come Pellegrino Artusi scrisse La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, allo stesso modo De Filippo dà con questi tre atti una dimostrazione di scienza della drammaturgia e arte di metterla in scena. A De Fusco vanno i due più importanti compiti di un regista: scegliere gli attori giusti, che non è cosa semplice; allestire lo spettacolo riuscendo a rispettare appieno Eduardo e nello stesso tempo mostrare una propria visione della commedia, che è cosa difficile.
Il metteur en scène chiede alla scenografa e costumista Marta Crisolini Malatesta, che anche stavolta offre una dimostrazione di tutto il suo mestiere, un ambiente in cui imperano il bianco, la luce e lo spazio. Otto porte bianche su un fondale di nuvole bianche danno su un lungo balcone, un tavolo e sedie bianche, la cucina è ornata di piastrelle chiare a motivi geometrici in stile ceramiche di Vietri. L’illuminazione di Gigi Saccomandi esalta il candore della scena e vira sul giallo per il balcone. Quindi è una bella giornata napoletana di sole sulla quale s’apre una casa comoda, di commercianti benestanti, borghesi che possono permettersi una cameriera. Bianchi o comunque chiari anche molti abiti, di fine anni Cinquanta, primi Sessanta come la commedia (scritta nel ’59). Vestono di bianco Virginia, la zia Memé sorella di Peppino, Maria Carolina (moglie del secondo figlio Roberto), Rocco in giacca e pantaloni bianchi nel secondo atto e il ragionier Luigi Ianniello, il vicino di casa, in completo chiaro. Anche la tovaglia del grande tavolo da pranzo, sempre del secondo atto, è bianca al pari delle sedute.
L’insistenza sul colore deve pure avere una ragione o comunque provocare una determinata sensazione. Per Newton il bianco è la risultante fisica della miscelazione di tutti i raggi colorati (Goethe era completamente in disaccordo ma questa è un’altra storia). Seguendo Newton di può ipotizzare che tutto quel bianco è la sintesi scenografica dei caratteri di ciascun personaggio, o se si vuole, del tratto saliente che ne condiziona il comportamento: la gelosia tormentosa di Peppino che crede la moglie fedifraga; l’indignazione cocciuta di Rosa ancora offesa dopo quattro mesi dai complimenti che il marito riservò alla nuora Maria Carolina e ai suoi maccheroni alla siciliana sostenendo di non averne mai mangiati di così buoni; la mitezza premurosa del ragioniere al quale non passerebbe per l’anticamera del cervello di andare a letto con la padrona di casa; l’ambizione di Rocco che vuole elevare la tradizione familiare di commercianti di abiti per uomo del Rettifilo, cioè Corso Umberto I, con l’apertura di un negozio a Chiaia nell’assai più elegante via Calabritto; il caratterino contrarioso della giovane Giulianella, anche un po’ viziata in verità, che si è adirata di brutto con il fidanzato Federico dispiaciuto all’idea che lei voglia diventare annunciatrice alla televisione; l’innamoramento afflitto e remissivo dello stesso Federico che una sola mira ha in testa, sposare Giulianella; il dispotismo strafottente della zia Memé che ha rovinato il suo rampollo maschio, Attilio, e lo ha trasformato in un figlio di mammà complessato; la vecchiezza bisbetica di Antonio Piscopo, il padre di Rosa, che cominciò da giovane con una cappelleria ai Banchi Nuovi e di nulla se ne importa, se non di aprire una nuova bottega e tornare ad essere il “re della paglietta” mediante una specie di riffa che chiama totocappello. E via di questo passo, c’è chi va a fare Pulcinella alla recita domenicale d’una compagnia amatoriale, chi si vergogna della calvizie e picchia chiunque accenni di riderne, a ciascuno il suo colore, la sua nota intima d’anima, il pungiglione del suo desiderio. Questo è il genio di Eduardo, meraviglioso studio di caratteri, pari a Molière, al Balzac della Commedia umana, non c’è niente da fare, in Italia nel Novecento è il più bravo, teatralmente superiore anche a Pirandello.
La regia segue il testo fedelmente e si permette solo qualche variazione rispetto alle didascalie dell’autore, anche in virtù delle otto porte, idea che serve alla suggestione visiva e al movimento degli attori, i quali hanno da aprirle, chiuderle, riaprirne alcune o tutte, entrare e uscire. Avvengono in alcuni momenti fatterelli che mal si spiegano: per esempio, la prima volta che appare in scena, Rocco saluta la madre impegnata a fare il ragù e sponte sua spalanca le quattro porte sul balcone che lei in precedenza non aveva aperto. In una famiglia napoletana vecchio stampo come questa, il figlio non si permetterebbe mai di prendere una simile iniziativa sul governo della casa in presenza della madre senza chiederle il permesso. Sono dettagli ma questa è una commedia costruita sui particolari, sulle sottigliezze delle gerarchie, sugli equilibri e gli squilibri nelle relazioni familiari. Il fratello di Peppino, Raffaele, quello che va a fare Pulcinella, dice una battuta che chiarisce la scala gerarchica della famiglia usando quella teatrale (che all’epoca gli spettatori conoscevano): “Già, qua come stiamo combinati potremmo formare la più grande compagnia di prosa napoletana. La signora Elena prima attrice. Zia Memé, mia sorella, caratterista comica. Donna Rosa, madre nobile. Giulianella l’ingenua. Don Federico: attor giovane. (Mostrando Virginia) La servetta, eccola qua. Mio fratello generico primario e parti sostenute. Attilio, mio nipote, il mamo”. Per chi non lo ricordasse, il mamo era il giovanottello sempliciotto e timido, magari pure innamorato. Piuttosto balza all’attenzione che Peppino, il padre, il capofamiglia, non viene definito capocomico, o prim’attore, o almeno padre nobile essendo sua moglie madre nobile, come ci si aspetterebbe, ma generico primario. “La sua importanza – spiega Sergio Tofano nel suo delizioso saggio Il teatro all’antica italiana – “gli derivava da essere l’antagonista del primo attore, personaggio inevitabile quindi a dare sviluppo e interesse a qualsiasi trama del repertorio romantico… Come dire, il capo dell’opposizione”. È un’indicazione precisissima che Eduardo mette lì, dentro una breve tirata, come se niente fosse, e che è utile a capire l’approccio migliore per affrontare questa magnifica commedia. Opera in questo senso effettivamente De Fusco, con solo qualche indugio, qualche ghiribizzo, un po’ di lentezza nel primo atto, ma con decisione e verrebbe da dire franchezza registica nei due successivi, e con un incedere ben ritmato nel suo progressivo rallentare verso il delicato, sentimentale epilogo.
Se Teresa Saponangelo e Claudio Di Palma sono perfetti e quando in futuro si metterà in scena un nuovo allestimento di Sabato, domenica e lunedì, ci si ricorderà di come loro due l’hanno fatto, il resto della compagnia appare complessivamente di livello adeguato all’impresa anche se non del tutto omogeneo. Molto in parte Francesco Biscione che fa il vecchio Antonio Piscopo, divertente, sempre con i tempi giusti, abile anche fuori battuta. Meno interessante la prova di Anita Bartolucci che perde varie occasioni per dare carattere e brillantezza alla sua zia Memé. Anche la Giulianella di Mersila Sokoli all’inizio pare solo lo steretipo di una ragazzetta nervosetta e superficiale, ma poi l’attrice si fa valere nel dialogo del terz’atto con il padre, quando gli spiega l’incidente dei maccheroni alla siciliana, e trama bene la sua parte con dolcezza filiale e arguzia femminile. Gianluca Merolli mette in Rocco brio e sfrontatezza. Paolo Serra s’abbiglia interpretativamente dell’aspetto dimesso d’uomo quieto, beneducato e sprovveduto che s’attaglia alla perfezione al ragionier Luigi Ianniello; la parte di sua moglie Elena offre assai poche possibilità all’interprete Maria Cristina Gionta che va di mestiere e non molto altro può fare. In scena anche Pasquale Aprile (Roberto), Alessandro Balletta (Federico), Paolo Cresta (Raffaele Priore, fratello di Peppino), Rossella De Martino (la cameriera Virginia), Renato De Simone (Attilio), Antonio Elia (doppio ruolo: il dottor Cefercola e il sarto Catiello), Domenico Moccia (Michele), Alessandra Pacifico Griffini (Maria Carolina).

Marcantonio Lucidi,
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