“Il nodo” di Jhonna Adams, regia di Serena Sinigaglia, con Ambra Angiolini e Arianna Scommegna. Al Politeama Rossetti di Trieste

IL NODO

La tragedia è un fulmine scagliato dall’ignoto

“Costruire automobili è mestiere da giganti”, diceva con compiacimento Gianni Agnelli. Naturalmente si trattava di una stupidaggine. Mestiere da giganti è costruire uomini, fare il maestro e la maestra di scuola. Il fallimento di un insegnante provoca catastrofi e distrugge vite, il declino dell’istruzione polverizza le civiltà.
Dietro il dramma scritto dall’americana Johnna Adams, Il nodo, c’è la convinzione (non confutabile) che le basi della società siano nascoste nelle aule di scuola. Lo spettacolo, in tournée nei teatri d’Italia con la regia di Serena Sinigaglia, si è fermato alcuni giorni al Politeama Rossetti di Trieste. Si tratta di un duello verbale fra una madre e un’insegnante delle medie interpretate rispettivamente da Ambra Angiolini e Arianna Scommegna. È una di quelle occasioni in cui non sarebbe giusto paragonare le prove delle due attrici, le quali sono entrambe molto brave, abbracciate e avvinghiate e contorte negli schizzi di sangue d’anima d’uno scontro dialettico addirittura straziante. Angiolini, tecnica, intensa (puntuale direbbe un critico teatrale) dice la battuta sempre al momento giusto. Scommegna la dice al momento migliore: è un’artista non comune, ha la capacità di nascondere la tecnica sfruttandone al massimo le potenzialità espressive, offre una ricchezza di mimiche, di atteggiamenti, di gesti anche minimi, tutto un arredamento vocale e corporeo del personaggio che pare frutto naturale dell’occasione, dell’istante, ed invece è una sorta di automatismo della consapevolezza. Fa le cose nel momento migliore perché è il momento perfetto per fare le cose, perché l’addestramento e l’esperienza sono attraversate dall’intuito, il nome che si dà ad alcuni meccanismi fulminei della mente, alla velocità della coscienza. L’arte come tecnica più elettricità.
Eppure Angiolini sta al passo, non subisce la compagna di scena, anzi è in sintonia con lei, come un pianoforte entra in risonanza con un altro, e il pericolo insito in questo spettacolo, ossia che il duello fra i personaggi si riverberi in una competizione fra attrici, è scampato. Questa è complicità, solidarietà fra interpreti che la regista Serena Sinigaglia distende sul palcoscenico a dare raffinatezza, una sottigliezza ai movimenti, ai ritmi, alle pause, a tutta la messinscena anch’essa semplice in apparenza ed invece minutamente studiata e organizzata.
Il nodo del titolo e della storia è presto individuato dallo spettatore, è un po’ telefonato, e sarebbe un difetto della drammaturgia se l’autrice si interessasse soprattutto all’esposizione della vicenda, alla narrazione dei fatti. Invece quello che qui importa è come le due donne, la mamma e la maestra, affrontano la questione. La linea del racconto è verticale, non orizzontale che procede da un inizio a una fine. Questo forse è un modo molto femminile di scrivere, femminile nel senso migliore, originale, diverso dalla scrittura maschile che tutto sommato ambisce a una compiutezza, uno scioglimento, a una conclusione anche morale oppure a una rivoluzione da risolversi però in un nuovo equilibrio (in questo senso si potrebbe sostenere che il più femminile dei drammaturghi moderni sia Samuel Beckett). Invece qui non può esserci soluzione (infatti non c’è finale), la catastrofe è già avvenuta, il figlio è morto (si può dire, tanto il pubblico lo capisce dopo dieci minuti e l’autrice nulla fa per impedirlo). Di chi è la colpa? Della scuola, della maestra che lo aveva sospeso, dei compagni? Soprattutto: chi deve portare il peso di questa colpa? E poi: chi era il figlio? Cosa c’era nella sua mente, nella sua vita, che gli adulti hanno ignorato? Restano solo le domande. Non sono vane per il fatto che ormai non c’è più nulla da fare e neanche, a contrario, hanno un’utilità a fini giudiziari. Contengono invece un principio fondamentale per potersi dire umani, il principio di responsabilità. Spaventoso stravolgimento di cuori, di menti, di viscere è la storia della mamma e della maestra. La verticalità del dramma è l’immersione nel sangue dell’anima.
Indicibile ovviamente, racconto irraccontabile, l’estrema energia emanata dalle due donne è una forma della sopravvivenza, è il tentativo di evitare la dissoluzione nella tragedia del proprio essere mediante la compattezza della rabbia, la ferocia della domanda, lo spasmo del dolore. La tragedia femminile, così come raccontata da Jhonna Adams, messa in scena da Serena Sinigaglia, interpretata da Ambra Angiolini e da Arianna Scommegna, somiglia solo in apparenza a quella maschile. Perché la donna sa che la tragedia non ha logica, non ha morale, è un fulmine scagliato dall’ignoto.

Marcantonio Lucidi,
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