“Regina madre” di Manlio Santanelli, con Milena Vukotic e Antonello Avallone anche regista. Al teatro dell’Angelo di Roma.

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Impari fu il duello

C’è un momento interpretativamente molto intenso, quando Milena Vukotic e Antonello Avallone sono seduti una di fronte all’altro e lei raggomitola la lana che lui tiene fra le braccia a mo’ di aspo, la macchina che serve a tenere avvolto il filo. Il movimento sincronizzato delle braccia di Avallone e delle mani di Vukotic che tirano il filo e lo raggomitolano è l’unico in cui i due interpreti sono in sintonia. Nella messa in scena al teatro dell’Angelo di Roma del dramma di Manlio Santanelli Regina madre diretta dallo stesso protagonista maschile, si vede perfettamente cosa succede quando si mettono insieme due artisti che lavorano su piani molto distanti.
Milena Vukotic è una delle più importanti interpreti italiane. Possiede una tale capacità di tenere il personaggio, di sondarlo nelle sue più nascoste intenzioni e di restituirlo con una ossimorica ricchissima sobrietà, che ogni suo gesto, ogni suo movimento e tono di voce sono impregnati del senso della necessità. Ciò che caratterizza la sua prova è di dare al pubblico la sensazione di assecondare il personaggio, il quale in effetti non può fare diversamente da ciò che Vukotic desidera in quel preciso momento. Non ha scampo ma non lo sa, uno solo il suo destino scenico, la sua evoluzione è inesorabilmente determinata seppur imprevedibile per chi guarda. L’attrice sta oltre la tecnica e l’esperienza, persino oltre l’istinto teatrale che tutto sommato resta un felice automatismo, è una creatrice consapevole e naturale che senza sforzo apparente scolpisce la figura vivente del personaggio. Il suo talento di grande attrice risiede nel senso di facilità che essa trasmette quando sta in scena a generare il difficile. Ed è cosa appagante per chi la osserva perché si rende conto che la complessità può divenire semplice sabbia da far scorrere fra le dita, sorridendo, con un leggero distacco. Ciò è dato soltanto a chi possiede quel talento, purtroppo.
Tutt’altra storia è Avallone, attore teso, di fatica, che cerca l’effetto, che martella sul personaggio cercando di asservirlo piuttosto che di accompagnarlo. Ma il personaggio, che nella sua vita scenica cela una bizzarra, sottile ma dura, indipendenza, prende equilibri, o squilibri, che questo tipo di attore continuamente deve correggere. Sicché, tutto concentrato nell’ufficio del controllo, Avallone cerca di forzare sul comico e non vede le opportunità, le sofisticate occasioni umoristiche, gli spazi d’ironia, le raffinate varianti interpretative che la Vukotic gli offre. Sono occasioni che cadono sul pavimento e che segnano la distanza fra i due protagonisti rendendo disomogeneo il risultato complessivo dello spettacolo, come se si assistesse a due rappresentazioni diverse, una di grande teatro e l’altra di cabaret, per quanto raffrenato dalla natura del testo.
Eppure Regina madre, dramma scritto una trentina d’anni fa, richiede proprio una profonda concordia stilistica dei due artisti in scena. È la storia del rapporto fra una madre ultrasettantenne, una vera e propria matriarca, e un figlio cinquantenne giornalista di poca fortuna che ha perso il lavoro e la moglie e torna casa da mammà. Santanelli conduce un’indagine un po’ tragica, un po’ grottesca sull’onda di un progressivo incancrenirsi della relazione fra i due, inquinata da dipendenza psicologica, menzogne, piccole vendette, ricatti affettivi, interessi personali, aspirazioni confliggenti. Si tratta di un dialogo tramato di sottintesi, sotterfugi, sottotesti, sottolineature. Sarebbe un bel duello d’attori se non fosse che Vukotic interpreta e Avallone recita.

Marcantonio Lucidi,
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