“Agamennone” di Fabrizio Sinisi da Eschilo, regia di Alessandro Machia, con Paolo Graziosi e Daniela Poggi. Al teatro romano di Ferento

Agamennone

Morte inutile di un re

Chi ha partecipato come giurato a premi di drammaturgia lo sa molto bene: a mano a mano che si procede nella lettura delle opere, s’impilano ai lati della scrivania pacchi ingombranti di scritti che solo l’abitudine e la loro forma dialogica inducono a chiamare “drammaturgie”. In effetti sarebbe bene chiamarli “Genoveffe”. La pila delle Genoveffe. Fabrizio Sinisi con il suo Agamennone, tratto da Eschilo in una forma che si vuole moderna e andato in scena l’altra sera al teatro romano di Ferento con la regia di Alessandro Machia, ha prodotto una Genoveffa nella quale non avviene niente, non c’è azione, tutto è detto, tutto è raccontato. Quando Cassandra profetizza che sta per succedere qualcosa e lo ripete tre volte, ormai si è arrivati quasi a metà dello spettacolo e si spera di vedere finalmente un po’ di tragedia, qualunque cosa, anche una battaglia fra soldatini di piombo. Niente da fare: si assiste a una litigata matrimoniale in camera da letto fra Agamennone, appena tornato vittorioso dalla guerra di Troia, e sua moglie Clitemnestra, la quale invece di saltare addosso al marito per farci l’amore o ammazzarlo, lo rimprovera di ciò che già si sa perché spiegato in precedenza, ossia del sacrificio della loro figlia Ifigenia dieci anni prima, al momento della partenza, per propiziare la vittoria degli Achei contro i troiani. La tragedia di vendetta dell’originale di Eschilo si trasforma in una lamentazione di consorte contrariata. Che potevo fare?, chiede lui, che potevo fare?, come d’uno che ha passato un guaio non con gli dèi dell’Olimpo ma con l’inquilino del piano di sopra, turbolento, minaccioso e pure culturista. Poco e nulla può il povero Agamennone, tornato da Troia con un pantalone, una camicia, uno zainetto sulla spalla e sembra un profugo siriano perché, scrive l’autore, “non è più l’uomo della guerra, ma l’uomo della stanchezza e del disincanto, l’uomo che tutto sa perché tutto ha visto e tutto ha provato”. Siccome il personaggio è affaticato, l’interprete Paolo Graziosi entra in scena curvo, cammina lentamente e parla per tutto lo spettacolo con lo stesso tono monocorde, quasi una cantilena, qualsiasi cosa debba dire, ed ha sempre la stessa espressione, tanto non succede niente. Questo non è neanche recitare, nemmeno ripetere il testo per farsi la memoria, al massimo si tratta di emissione vocale articolata su delle parole, qualunque esse siano. Fare in questo modo un provino significherebbe perdere la parte. Daniela Poggi nel ruolo di Clitemnestra, di fronte a un collega che dà le battute come fossero sogliole lessate, è più impotente di Agamennone di fronte agli déi. Anche lei però, quando Graziosi non è in scena e le cose vanno meglio, non dimostra di avere ampiezza di registro interpretativo e sembra puntare soprattutto sulla sua innegabile avvenenza e sul portamento. Ne viene fuori una Clitemnestra rigida, statica, d’una Poggi che ha imparato la parte, l’ha studiata, ma non ha trovato il personaggio, non ne ha trovate le intenzionalità, le emozioni, le caratteristiche: uno specchio senza riflessi. Qualcosa in più fa la Cassandra di Valeria Perdonò che cerca di dare un po’ di vita e di elettricità al suo personaggio, così almeno un minimo di luce si farà. Elisabetta Arosio impersona il coro e sembra uscita da una discoteca di periferia perché il popolo qui è brutto, sporco e cattivo, odia (ricambiato) la regina ma alla libertà preferisce la tirannia, come osserva Clitemnestra. Ed è su considerazioni social-politico-moralistiche che si chiude questo spettacolo mesto: Sinisi si sente in dovere di informare la platea che gli esseri umani passano la vita a farsi del male. La regia di Alessandro Machia non ha idee, basa tutto sul testo e poco o punto sulla visualità, si limita a mettere in scena Genoveffa così com’è, forse tenta una direzione degli attori ma Graziosi in particolare sembra proprio sfuggirgli di mano. Le musiche di Francesco Verdinelli sono una consolazione: in simili condizioni, bastavano quelle a risolvere la serata.

Marcantonio Lucidi,
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