“Ve ne dico quattro” uno spettacolo di Pino Strabioli scritto assieme a Fabio Masi. All’Off Off theatre di Roma
Quando eravamo scorretti (e geniali)
Durante il suo spettacolo Ve ne dico quattro in scena all’Off Off theatre di Roma da lui scritto assieme a Fabio Masi, Pino Strabioli pronuncia almeno tre volte la parola “frocio”, dice anche =crogiolo di froci”. Viva la lotta alla censura woke e all’irreggimentazione del politically correct. Il palcoscenico è il luogo della libertà di parola dove si può nominare la realtà e usare alla faccia degli wokisti i vocaboli finocchio, lesbica, zingaro e pecora nera; e in faccia ai trumpisti e fratelli fascistelli disabilità, equità, sessualità e pure Golfo del Messico.
Mentre per le strade dell’Occidente corrono queste due enormi bande di manganellatori semantici e di squadristi lessicali, con molta ironia, con molto understatement, Strabioli racconta di alcuni grandi uomini e donne di teatro, uomini e donne liberi che, beato lui, ha frequentato a lungo: Paolo Poli e Franca Valeri, Dario Fo, Gabriella Ferri, Valentina Cortese. Artisti che se ne fregavano dei borghesucci parrucconi, no, non si può dire, che si disinteressavano della classe media allineata e dei chierici all-inclusive come i pacchetti vacanza. Paolo Poli era uno straordinario intellettuale della Magna Frocia, no, nemmeno questo si può dire, più corretto un artista eccentrico. Strabioli ricorda quindi una risposta dell’artista eccentrico (ch’era nato nel 1929) a un giornalista cretino – no, no, qualcuno potrebbe pensare che giornalista cretino sia pleonastico – meglio un giornalista poco sveglio che gli chiedeva provocatoriamente cosa avesse fatto durante la Seconda guerra mondiale. Poli, tranquillo: “Ho fatto le seghe ai tedeschi. Per indebolire il nemico”. Per carità, intendeva dire che aveva praticato un’attività manuale non convenzionale.
C’è da morir d’invidia per i tesori che Strabioli ha accumulato nella memoria da una scena che non c’è più e da artisti che sono andati via. il suo monologo è pieno di aneddoti, giochi di parole, ricordi teatrali, episodi buffi, a volte commoventi, battute come salti mortali dell’intelligenza. “Franca – disse una volta alla Valeri – tu sei eterna”. “Forse – ribatté lei – ma io non ci sarò”. Lo showman tira fuori la maschera del bassotto che Franca Valeri indossava nel ’48 per lo spettacolo di Sergio Tofano Bonaventura veterinario per forza, una vera reliquia di palcoscenico. Dario Fo gli raccontava della sua infanzia sul lago Maggiore, dei soffiatori di vetro ambulanti e dei loro racconti, di suo nonno che vendeva la verdura nelle piazze di paese e al contempo intratteneva la gente con spettacolini improvvisati. Arrivano nel monologo Franca Rame naturalmente – “Il fenomeno non sono io, è Franca”, sosteneva il premio Nobel – e Gabriella Ferri che alle tre del mattino decise di andare a casa di un suo ammiratore, il padre di un ragazzo capitato casualmente in macchina con lei e Strabioli. Passano Alda Merini, Edith Piaf, Maria Callas, Mariangela Melato, Roberto Longhi, quell’Italia là insomma, cosmopolita, anticonformista, sofisticata. Strabioli è un cicerone, con lui si entra nella casa milanese di Valentina Cortese, quale stravaganza, quale originalità, e non si vorrebbe più andar via; con lui si va in tournée con lo spettacolo di Paolo Poli I viaggi di Gulliver, scene di Lele Luzzati, e non si vorrebbe più tornare. Non bisogna usare le parole “nostalgia”, “declino”, “denatalità” quando si parla dell’Italia odierna, non è politicamente corretto, bisogna esclamare Dio, patria e famiglia.
