“Tenente Colombo – analisi di un omicidio” di Richard Levinson e William Link, regia di Marcello Cotugno. Con Gianluca Ramazzotti e Pietro Bontempo. Al Quirino di Roma
Ah, un’ultima cosa: sono un esistenzialista
Peter Falk è un marchio a fuoco nella memoria dei ragazzini anni Settanta e non c’è modo d’essere onesti: si va al Quirino di Roma a vedere Tenente Colombo – analisi di un omicidio con nella mente quel modo di stare curvo, la trascuratezza come disinteresse per il materiale, lo sguardo un po’ fisso per via della protesi oculare all’occhio destro, i gesti, la mano che si alza sopra la testa, il corpo che un attimo prima di uscire dalla stanza si gira: “Ah, un’ultima cosa…”. Il sigaro, la cravatta storta, l’impermeabile realmente comprato per quindici dollari in un negozio di New York. E la Peugeot 403 del 1959 con la capote da risistemare, così esistenzialista, così europea. Non fu un caso che Falk nel 1987 partecipò nel ruolo di se stesso a un film estremamente europeo ed esistenzialista, Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders.
Irriproducibili le espressioni sornione e ironiche, l’understatement strampalato e goffo, la finta insicurezza. Ciononostante Gianluca Ramazzotti nel ruolo di Colombo riesce a offrire un’imitazione assai godibile dell’originale televisivo. Tuttavia l’attore ha dichiarato in un’intervista di non fare “nessuna parodia, nessuna imitazione di Peter Falk”. Allora si può osare sostenere che la sua è una caratterizzazione à la manière di Peter Falk. L’importante è che lo spettatore esca dalla sala soddisfatto della serata come quando inaspettatamente si mangia in un ristorante di Los Angeles la riproduzione di un ottimo piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino.
Messo in scena da Marcello Cotugno per quello che è, buon teatro d’intrattenimento, il crime drama (titolo originale Prescription: Murder) di Richard Levinson e William Link, andò in scena a Broadway nel 1966, due anni prima l’esordio della serie americana sulla Nbc. Protagonisti erano Thomas Mitchell nel ruolo di Colombo e Joseph Cotten che faceva Roy, l’assassino, qui restituito da un attore bene in parte e tecnicamente solido quale Pietro Bontempo. In questo caso, si può subito indicare il colpevole – rivelazione che per un giallo di Agatha Christie equivarrebbe all’omicidio del lettore – perché come tutti i ragazzini di cui sopra sanno, ma anche i padri, le madri, i nonni, i gatti, le vecchie zie, ogni componente familiare di fronte a una televisione in bianco e nero, in Colombo il killer è sempre noto al pubblico fin quasi dall’inizio e la suspense non sta nella sua scoperta ma nei progressi dell’indagine, nel modo di scoprirlo. Anche in questa prima apparizione teatrale del tenente, il divertimento è nel lento, inesorabile avvicinarsi del detective a Roy Flemming, uno psichiatra che non ne può più del suo matrimonio. Con la complicità della sua paziente e amante Susan, che di mestiere fa l’attrice, strangola la moglie Claire, sposata per soldi. Il dottore è molto intelligente e il suo alibi all’apparenza perfetto ma il tenente sta sull’indagine come le tessitrici sul retro del tappeto, nodo dopo nodo, indizio dopo traccia, un dettaglio, un gesto, una mancanza, un’imprecisione impercettibile, fin quando il disegno non è completo. Dove Colombo arriverà lo sanno tutti, come ci arriverà non si può rivelare.
La regia è lineare, precisa e abbastanza brillante come necessita questo genere di commedia. Peccato per alcuni problemi tecnici che hanno disturbato la seconda replica. Di mestiere le scenografie di Alessandro Chiti che alterna con una piattaforma girevole un salotto borghese e uno studio psichiatrico. Oltre ai due protagonisti maschili, le attrici sono Samuela Sardo, interprete dell’amante, e Sara Ricci nel ruolo della moglie. Risolvono le rispettive parti con la stessa professionalità dimostrata da Chiti. In scena anche Nini Salerno.
