“Sogno di una notte di mezza estate” di William Shakespeare, regia di Daniele Salvo. Con Melania Giglio e altri tredici attori. Al Quirino di Roma

Sogno di una notte di meza estate

Chi non dubita strepita

Il Sogno di una notte di mezza estate è una commedia eufuistica, assume cioè uno stile prezioso e manierato che privilegia il gioco d’ingegno e di parole, omofonie, artifici linguistici e semantici, modelli retorici, ossimori, allitterazioni, antitesi. È un testo che, ovviamente, in italiano sfugge e tocca trovar qualcosa di eccelso a sostituzione di una feerie della parola che peraltro procede in parallelo a quella drammaturgica, visto che gran parte della commedia si svolge nel mondo boschivo delle fate.
Sono i costumi di Daniele Gelsi, nella messinscena diretta da Daniele Salvo al Quirino di Roma, a trasferire la raffinatezza del verbo in una meraviglia illustrativa che arricchisce lo spettacolo intero e che peraltro è caratteristica del genio visuale italiano. Sono abiti in parte secenteschi e massimamente da sogno come vuole il titolo di Shakespeare, fatti con la stoffa dei miraggi, dei sospiri, dei desideri, tagliati da una fantasia di fanciullo provetto che divide con divertita pignoleria le tre classi d’esseri in azione sul palcoscenico: gli amanti, le fate e gli artigiani che fanno gli attori della commedia nella commedia. Di Fabiana Di Marco, la scenografia segue e mette al centro una sopraelevazione – torrione, reggia, castello, trono – servita da quattro scalinate per le salite e le discese di uomini e fate, gli inseguimenti degli innamorati, per innalzare la regalità di Oberon, re degli immortali, e di Teseo, duca dei mortali. E per Puck, il folletto burlone chiamato Robin Goodfellow, cioè “bravo ragazzo”, che deve mandare avanti l’azione. Il personaggio è interpretato da Melania Giglio e qui comincia un altro spettacolo, quello della signora Giglio che cangia il sogno in incubo, nel senso latino di “essere che giace sul dormiente”, su Puck succubo. L’attrice letteralmente schiaccia il folletto, lo stritola, lo trasforma in un essere demoniaco, una creatura fantasy, un gollum ghignante, digrignante, che canta bene ma fortissimo e ancor più forte strilla. Gli attori gridano dentro ai microfoni ad archetto, le musiche di Patrizio Maria D’Artista rombano ad alto volume al punto da coprire persino voci amplificate come sirene di ambulanze. Anche le luci danno l’impressione di partecipare a un frastuono da rave party. Che senso ha amplificare una compagnia che urla? Forse perché ogni tanto la Giglio deve cantare, ma nessuno in sala si sarebbe risentito all’uso di un gelato per le occasioni canore. Eppure in scena si vedono attori che palesemente non avrebbero necessità di noccioline foniche alla Super Pippo acustico. Per esempio, Federico Gatti nella parte di Bottom, veloce, agile, imprevedibile, quasi un matto shakespeariano; oppure Marial Bajma Riva che offre una prova dai brillanti effetti comici con l’interpretazione di una ridicolosa Elena impostandola come una femmina amorosa, lamentosa, rabbiosa innamorata di Demetrio che vuole Ermia la quale ricambiata ama Lisandro. Non tutti convincono, il Lisandro di Alberto Mariotti appare un attor giovane che deve fare il bello ma non rifulge e Alessandro Marmorini nel doppio ruolo del duca Teseo e di Oberon, fa l’uno e l’altro in modo simile sicché le differenze più evidenti fra i due personaggi sono date dai costumi. Però è anche vero che la regia pare dirigersi stilisticamente in una sola direzione, l’enormità, l’eccesso, e sabota se stessa perché a guardare bene le idee ci sono, in vari punti lo spettacolo è interessante per la sua visione del testo shakespeariano.
In certi momenti dark dello spettacolo si percepisce il richiamo agli elementi sinistri che il Bardo ha infilato dentro il sogno, lo sconvolgimento delle stagioni, gli insulti che gli amanti si scambiano, la protervia e i rancori di Puck. E la goliardia può avere risvolti comici ma anche ripugnanti per chi la subisce: Oberon ordina a Puck di spremere il succo di una viola del pensiero sulle palpebre di Titania addormentata di modo che al risveglio la regina si invaghisca del primo essere che vedrà, uomo o animale. E la regina si infatua di Bottom la cui testa è stata precedentemente trasformata in quella d’un asino dallo stesso folletto. Maria Luisa Zaltron riempie di sensualità, di lascivia addirittura la sua Titania ed è proprio quanto serve al personaggio, l’esagerazione che rimanda alla nota peculiarità fisica dell’asino. Si tratta di una libidine non del tutto allegra, si sente una punta di abiezione, e quando la regina rinsavisce, prova disgusto per la propria momentanea depravazione. A midsummer night’s dream non è soltanto un bel gioco eufuistico, una favola bucolica e scherzosa, ma un oggetto drammatico complesso: il sogno nasconde l’incubo, la fantasia cela la realtà, il teatro contiene il teatro. Shakespeare è un illusionista, un ingannatore che si diverte a far credere facili le cose difficili. La regia di Daniele Salvo è priva di dubbi, punta tutte le sue carte sulla sfrenatezza; affida a una sola attrice, Melania Giglio, il senso del Sogno e su di lei accentra l’estetica dello spettacolo; perde di vista la costruzione a scatole cinesi di una drammaturgia la cui complessità rivaleggia con Amleto e l’enigmaticità con La tempesta. Troppo grande Shakespeare per non dubitare di sé (stessi).
In scena, tutti da citare per il gran lavoro che compiono: Martino Duane (Quince, Egeo), Matilda Farrington (Ermia), Tommaso Sartori (Demetrio), Odette Piscitelli (fata), Eleonora Russo (Snug, fata), Filippo Rusconi (Flute, Elfo) Raffaele Vernieri (Snout,elfo), Joyce Conte (Starveling, elfo).

Marcantonio Lucidi,
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