“Il malato immaginario” di Molière, regia di Guglielmo Ferro, con Emilio Solfrizzi nel ruolo del titolo. Al Quirino di Roma
L’attore, l’amore, la morte
Con oggi primo gennaio 2022 si entra nell’anno molieriano e si festeggia (assieme alla ricorrenza della morte di Marcel Proust un secolo fa) il quarto centenario della nascita di Jean-Baptiste Poquelin, questo il vero nome del più grande uomo di teatro della storia assieme a William Shakespeare. Il malato immaginario – che si dà in questi giorni al teatro Quirino di Roma con regia di Guglielmo Ferro e interpretazione nel ruolo del titolo di Emilio Solfrizzi – è alla commedia ciò che Amleto è alla tragedia. Queste sono drammaturgie miracolose capaci di sintetizzare l’essere umano e cogliere lo spirito di un popolo, più vasto dello spirito del tempo. Il campiello di Goldoni spiega Venezia e Natale in casa Cupiello espone l’anima napoletana, ma l’Italia non possiede il grande dramma teatrale dello spirito nazionale. In Francia i festeggiamenti e le celebrazioni sono già incominciati, essendo fra appena due settimane, il 15 gennaio, il giorno di battesimo (quello di nascita è ignoto) del figlio di Jean Poquelin, un tappezziere del re.
Molière è morto venerdì 17 febbraio 1673, sette giorni dopo la “prima” assoluta del Malato immaginario avvenuta il 10 febbraio al Théâtre du Palais-Royal. Il grande capocomico interpretava l’ipocondriaco Argante e la leggenda vuole che si sia accasciato in scena nel corso della quarta replica. Naturalmente si tratta di una romanticheria. Charles Varlet, nome d’arte di La Grange, uno dei principali attori della Troupe du Roi di Molière, compilò per anni il suo famoso Registro, libro di conti e di annotazioni sulla vita e l’attività della compagnia, conservato sacralmente alla Comédie-Française. Vi racconta di quel disgraziato venerdì 17: “Quello stesso giorno, dopo la commedia, verso le 10 di sera, il signor di Molière morì nella sua casa di rue de Richelieu, avendo recitato il ruolo del Malato immaginario, molto indisposto per un raffreddore e una congestione polmonare che gli procurava una grande tosse, di modo che, dai grandi sforzi che fece per sputare, si ruppe una vena nel corpo e non visse mezz’ora o tre quarti d’ora dopo la rottura della detta vena, ed è sepolto nella parrocchia di Saint-Joseph…”. Adesso riposa al cimitero del Père-Lachaise. George Forestier, autore di una biografia, Molière, edita nel 2018 per i tipi di Gallimard, scrive che Jean-Baptiste è morto “delle conseguenze brutali d’una infezione polmonare che si è portata via centinaia di altri parigini nel febbraio del 1673”. Si moriva nel Seicento al modo con cui si muore ora, quindi i grandi classici come Il malato immaginario sono sempre teatro contemporaneo.
Le vicende raccontate in quest’ultimo capolavoro di Molière sono tipiche delle commedie “dei vecchi e dei giovani” fondate sul conflitto generazionale e che trovano nel matrimonio il casus belli familiare. È il conflitto fra l’amore e l’interesse che va in scena: Angelica (figlia di Argante) e Cleante sono innamorati l’una dell’altro e vogliono sposarsi semplicemente perché innamorati. Il padre invece intende maritare la ragazza a Tommaso, il rampollo mostriciattolo e mezzo idiota del dottor Diaforetico, perché, ipocondriaco com’è, tutto il giorno impegnato a farsi somministrare salassi e purghe da medici pedanti e incompetenti, ne vuole avere sempre uno a disposizione in casa. Vedovo, ha sposato in seconde nozze Béline (Belina, qui chiamata Bellonia), profittatrice avida di soldi e di eredità che si rivela tale grazie a uno stratagemma di Tonina, solita servetta molieriana piena di malizia, furbizia e giustizia. Sarà lei, popolana concreta e smagata, a sventare i piani furfanteschi dei medici e della matrigna e a ridare ad Argante il senso della realtà. Come noto da trecentocinquant’anni, i tre atti finiranno nel migliore dei modi, Angelica e Cleante hanno il permesso di sposarsi e Argante si fa medico egli stesso con una cerimonia burlesca preparata da suo fratello Beraldo.
Beraldo: “Quando vi daranno la toga e il cappello da medico, imparerete tutto questo, e diventerete subito più esperto di quanto mai possiate immaginare”.
Argante: “Come? Basta indossare quell’abito, e si è in grado di discutere su tutte le malattie?”
Beraldo: “Sì. Con una toga e un cappello non si deve far altro che parlare: qualsiasi chiacchiera diventa oro colato, e qualsiasi sciocchezza diventa vangelo”.
Tonina: Ecco, signore, quand’anche non aveste che la barba e i baffi, sarebbe già molto, perché una bella barba è mezzo medico fatto”.
Ogni riferimento a fatti e persone dei nostri tempi è puramente casuale. In sintesi, l’abito fa il monaco o per dirla con Ennio Flaiano: “Oggi anche il cretino è specializzato”.
A guardare solo la sinossi, la commedia è bella, ben scritta, piacevolissima e molto divertente ma in teoria non di più. Invece c’è qualcosa di diverso che la rende eterna. Sotto la comicità, si trova un sottile strato di morte. I due giovani pensano al suicidio se il loro sogno d’amore non si realizzerà; Luigina, sorella minore di Angelica, si finge morta per sfuggire alla punizione corporale che il padre intende infliggerle; e lo stesso Argante, il quale per tutti e tre gli atti ha sempre paura di morire, si finge deceduto, cadavere su un tavolo, per scoprire i veri sentimenti della moglie e della figlia primogenita nei suoi confronti. Si tratta di una commedia sulla morte vestita da commedia di carattere. Trasformare il tragico in comico, il lugubre in scherzo, il funebre in vita. Ridere della morte: questo rende la commedia immortale. Per il resto ci sono le fissazioni, le paure, i vizi, i desideri, le fobie, la vanità e la presunzione dei falsi sapienti, i vecchi e i giovani, gli uomini e le donne, l’ipocondria che è la preoccupazione eccessiva per la propria salute e anche una forma acuta di mestizia. Soprattutto c’è la tecnica drammaturgica di Molière, il meccanismo delle sue opere, che sta lì bello e pronto da studiare, smontare e rimontare per capire come funziona ed evitare agli autori teatrali in erba di elargire soldi alle scuolette di scrittura creativa (scrittura creatina, scrittura cretina).
Di un testo così frequentato, in Francia messo in scena persino dagli studenti delle medie, così abituale che un affezionato delle platee teatrali può vederla anche una trentina di volte nella vita, in cosa la regia di Ferro e l’interpretazione di Solfrizzi ne individuano la grandezza? Il regista sembra muoversi portando la commedia da una condizione di farsa che non sarebbe propriamente corretta (Il malato immaginario è una commedia-balletto) verso un finale malinconico, quasi crepuscolare. La buffonesca cerimonia di investitura di Argante a dottore nel terzo e ultimo intermezzo è secondo la didascalia di Molière “una cerimonia burlesca d’un uomo che viene fatto medico, recitata, cantata e danzata. Vari tappezzieri vengono a preparare la sala e a disporre i banchi, in cadenza; dopo di che tutta l’assemblea (composta di otto portasiringhe, sei farmacisti, ventidue dottori, il candidato al ruolo di medico, otto chirurghi che danzano, e due cantanti) entra, e tutti prendono posto a seconda del rango”. Gli intermezzi con i balletti e le musiche di Marc-Antoine Charpentier oggi non si fanno più, però Ferro si inventa a chiusura dello spettacolo una scena con pupazzi che Argante prende lentamente, uno a uno, e dispone sulle sedute. Questi pupazzi rappresentano tutti gli altri personaggi della commedia. Cosa c’è di più malinconico d’un uomo solo circondato da simulacri d’uomini? La regia funziona perché sa dove vuole arrivare, sente la morte nella commedia comica e trova una sua metafora per rappresentarla.
Bravo Solfrizzi nel ruolo del titolo non solo perché sfrutta adeguatamente gli aspetti ridicolosi del personaggio ma perché in vista del finale, lo veste con la stoffa dell’umanità e ne ha misericordia. Sentimento prezioso: viene dal latino miserĭcors -ordis ed è composto del tema di miserere «aver pietà» e cor, cordis «cuore». Il versante maggiormente buffonesco dell’allestimento è affidato a Pietro Casella, interprete di Tommasino, che centra una macchietta di omuncolo nato male epperò un po’ feroce; apprezzabile nel ruolo fondamentale di Tonina che muove l’azione, Lisa Galantini fa tutto come si deve, i tempi, la velocità, l’ottima mimica, il suo stare in scena con agio, però l’impressione è che potrebbe dare di più, come si dice a scuola di quelli bravi, più servetta scaltra e meno donna di spirito, femme d’esprit, forse.Gli attor giovani sono Viviana Altieri (Angelica) e Cristiano Dessì (Cleante), sempre un po’ sacrificati in queste commedie dove gli innamorati devono essere carini e fare i disperati, piagnucolare, supplicare e infine sprizzare felicità perché a tirarli fuori dai guai ci pensa la popolana. Lo zio Beraldo è impersonato da Rosario Coppolino, il quale lavora con mestiere. Doppio ruolo per Sergio Basile che deve fare i due medici, il dottor Purgone e il dottor Diaforetico, mentre Cecilia D’Amico è Luigina e Antonella Piccolo interpreta Bellonia. Scene di Fabiana Di Marco. Costumi di Santuzza Calì che all’inizio dello spettacolo sorprende perché veste il padre, la figlia e la servetta praticamente allo stesso modo e interamente di bianco, come se ignorasse le gerarchie fra i personaggi. Poi li restuisce alle loro categorie sociali e si capisce che quello della costumista era un annuncio perché il bianco ospedaliero è il colore che precede il nero della fine.