Roberto Herlitzka nella sua lectura Dantis, curata da Antonio Calenda, al teatro Basilica di Roma

Roberto Herlitzka

Il suono divino della parola d’uomo

Il XVII canto dell’Inferno, dove Dante trova il demonio Gerione, “Ecco la fiera con la coda aguzza, / che passa i monti, e rompe i muri e l’armi! / Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!”, Roberto Herlitzka lo dice quasi come fosse un torrentello di parole e suoni che scende per il declivio di endecasillabi, il verso è battuto senza enfasi e con naturalezza come acqua che sciaborda sulla roccia, la rima risuona ma non ridonda. “E disse: «Gerion, moviti omai: / le rote larghe e lo scender sia poco: / pensa la nova soma che tu hai»”: Gerione, è tempo che tu ti muova: scendi lentamente con ampi giri nell’aria: pensa al peso nuovo che porti, a Dante e Virgilio sulla tua groppa.
Così incominciò l’altra sera Herlitka al teatro Basilica, posto perfetto per una lectura Dantis, una grotta, una camera di mattoni ed archi, la navata centrale della cripta della Scala Santa di Piazza San Giovanni, e lesse sei canti infernali fino al XXII che dice alla quinta terzina “Noi andavam con li diece demoni. / Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa / coi santi, e in taverna coi ghiottoni”. E a teatro s’ha da andare con un simile interprete, enorme di bravura, che mai sovrasta l’opera dantesca, non vi si impenna sopra con priapismo attorale e neppure si nasconde o si fa succubo o si involge nella retorica della modestia, ma corteggia la Commedia e l’abbraccia e la fa sua con delicatezze voluttuose e perfezione di dettagli e la sensualità del grande profondo nuotatore di versi. È quando entra nel XVIII canto che ci s’accorge di cosa fa perché il ruscellare precedente s’arresta e s’insabbia nella cautela, nella circospezione del primo verso, ascoltalo piano piano questo endecasillabo perché ogni parola è paurosa: “ Luogo è in inferno detto Malebolge”, cadi sulla penultima come corpo morto cade, usa la lettera “g” come fosse dolcezza di svenimento, prosegui adesso lentamente nella terzina, “tutto di pietra di color ferrigno, / come la cerchia che dintorno il volge”, senti che Herlitzka non stringe troppo su “ferrigno”, non s’approffitta e non cade in tentazione, altrimenti si farebbe retorico. Il “volge” incatena “Malebolge” con una voce ampia, grave, calma che promette suoni bassi e subito invece il verso successivo stride “Nel dritto mezzo del campo maligno”: “igno” è sfregare di metalli, è il ferrigno di cui Herlitzka non ha abusato e adesso se ne capisce la ragione, perché la grandezza poetica dell’interprete è di riconoscere la grandezza del poeta. Al XIX canto si sta nella terza bolgia dell’ottavo cerchio nel quale sono puniti i simoniaci. Dante incontra Papa Niccolò III che predice la dannazione dell’odiato Bonifacio VIII e di Clemente V e il suono di Herlitzka arriva più assertivo, a volte persino autoritario: “Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento; / e che altro è da voi a l’idolatre, / se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?”. Maledetti. Dove pare che scorra l’acqua del bene, là è la taverna del male: “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre!”.
La voce è un indice puntato, severe appaiono nel loro gesto le mani di Herlitzka, seduto su una poltroncina dietro al leggìo e riflesso da specchi che il regista Antonio Calenda ha messo a dare profilo e profondità al corpo dell’attore. Quasi interamente voce è l’interprete. Voce che tocca epperò anche mani che parlano, parola che suona e dita che ballano. Così si avanza nell’eterno dolore della città dolente e al XX canto Dante piange per la perduta gente. Piangono gli indovini nella quarta bolgia che hanno agognato di guardare nel futuro. Predire, sapere sono proprietà divine e la voce di Herlitzka assume un colore disperato. Le lacrime sono un lavaggio d’occhi che hanno troppo voluto vedere. Ma la parola è il suono che l’interprete invia al dio per dirgli che anche la natura dell’uomo è sovrannaturale. Questa è la musica dell’attore.

 

Marcantonio Lucidi,
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