“Re Chicchinella”, libero adattamento da “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile scritto e diretto da Emma Dante. All’Argentina di Roma

Re Chicchinella

Il potere sulla tazza della toilette

Ad Emma Dante s’addice Giambattista Basile e questo Re Chicchinella in scena al teatro Argentina di Rona è il terzo spettacolo, dopo La Scortecata e Pupo di zucchero, che la regista siciliana trae da Lo cunto de li cunti (overo lo trattenemiento de peccerille, recita il sottotitolo), raccolta di cinquanta fiabe del secentesco scrittore napoletano detta anche Pentamerone perché suddivisa in cinque giornate.
La favola che ha ispirato la regista e drammaturga è la prima dell’ultima giornata e s’intitola La papera che qui è diventata una gallina. Mentre il principe dell’originale ora è Re Carlo III d’Angiò, re di Sicilia e di Napoli, principe di Giugliano, conte d’Orléans, visconte d’Avignon e di Forcalquier, principe di Portici Bellavista, re d’Albania, principe di Valentia e re titolare di Costantinopoli, che par di stare a elencare i titoli di Antonio De Curtis, in arte Totò, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo.
La morale è semplice ma amaro il calice: della gallina fu papera, Re Carlo volle vedere (ma pareva non buon’opera) se pulisse il sedere; ne strofinò a dovere, la piuma dolce e tenera come femmena ‘e piacere. La chioccia però da vipera, s’insinuò fin alla camera, lo stomaco vivandiere, e si mise a mangiar libera, cibo di re cameriere. D’oro le uova intiere, grata gallina tenera, or manda per lo sfintere, ma vita di Carlo misera.
L’avida famiglia del re ha naturalmente il solo scopo di ottenere ogni giorno l’uovo d’oro e il poveretto spinge e si dimena e si tortura, ogni volta un parto, una sofferenza, uno sfinimento. Molto bravo Carmine Maringola nel ruolo del sovrano, non solo il volto ma il corpo stesso sembra immerso nell’acqua bollente della pena. Un’aragosta che si contorce. Come trattenemiento de peccerille è una storia feroce, con una morale dura, n’avvertimento p’ ‘e gruoss’. Attorno al potere impotente, al potere succubo dell’oro, dei soldi, una schiera di cortigiane vestite di costumi (della regista stessa) gonfiati come natiche e cosce di chicchinelle, galline nane, s’agita senza costrutto, ridacchia, gridacchia, scaracchia. La regia, che dirige tredici attori, è (anche) uno studio sul corpo e la sua espressività. Si tratta di un aspetto centrale nello stile teatrale di Emma Dante, il corporeo e il corporale come statuto della condizione umana, quindi all’apparenza posizione filosofica molto pessimista – l’uomo ridotto a una manifestazione di materia organica – invero misericordiosa, contiene una vena al contempo grottesca e compassionevole: prendere in giro, in questo caso per i fondelli l’esserino umano – “essere” è una parola grossa, più appropriato “esserino” – può rivelarsi una forma tortuosa, barocca di pietas. Il ridicolo non sempre uccide, a volte consola. La nudità del corpo regale – il re è nudo a un certo momento dello spettacolo – non ha nemmeno bisogno di essere spiegata ma qui non si esprime come dileggio ma come compatimento di fronte all’insulsaggine e alla presunzione del potere. Anche i re sono costretti dal corpo a sedersi sulla tazza della toilette: l’uguaglianza non è un’idea dell’uomo ma della natura.

Marcantonio Lucidi,
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