“The Real Hamlet”, traduzione e adattamento della pubblicazione del 1603 della tragedia shakespeariana di Patrizio Cigliano anche regista e interprete nel ruolo del titolo. Al teatro Off Off di Roma
Il principe dimezzato
Esiste un rapporto fra testo e architettura teatrale per il quale il più importante dramma del Novecento, Aspettando Godot di Samuel Beckett, si trova meglio in una cantina francese che sul palcoscenico di un teatro all’italiana (e starebbe benissimo sulla pista di uno chapiteau); al contrario Amleto sta stretto sulla ribalta intima e contenuta dell’Off Off di Roma.
Tuttavia Patrizio Cigliano, regista, traduttore, adattatore e interprete nel ruolo del principe di Danimarca, ha messo in scena del dramma shakespeariano una versione ridotta datata 1603 della durata di due ore, circa la metà delle altre a cui siamo abituati, che sulla carta può andar bene nel teatro di via Giulia. Ha intitolato lo spettacolo in modo un po’ forzato The real Hamlet. Si tratta in effetti del cosiddetto “cattivo quarto” stampato dal tipografo Valentine Simmes per gli editori Nicholas Ling e John Trundell. È un’edizione piratesca del 1603, probabilmente basata su una ricostruzione mnemonica di un allestimento dell’Amleto portato in tournée nei teatri pubblici di provincia dalla compagnia di Shakespeare, i Chamberlain’s Men a ranghi ridotti. I due editori presentarono il dramma come “La tragica Storia di Hamlet Principe di Danimarca, di William Shakespeare: rappresentata diverse volte dai Servitori di Sua Maestà nella Città di Londra, come pure nelle due Università di Cambridge e Oxford, e altrove”.
Era ladresca abitudine dell’epoca di William che malintenzionati andassero a teatro a vedere lavori di successo per trascriverli poi a memoria su copioni abusivi da pubblicare o da rivendere a formazioni teatrali concorrenti. Un fenomeno che spiega bene lo straordinario favore popolare di cui godeva la scena all’epoca. Proprio per difendersi da simili ruberie di opere dell’ingegno, l’Amleto, già noto fra il 1600 e il 1601, fu fatto iscrivere dai Chamberlain’s Men il 26 luglio 1602 (con scarsa efficacia, vista l’edizione non autorizzata dell’anno successivo) nel tutt’ora esistente Stationers’ Register – il registro ufficiale dei testi inglesi destinati alla pubblicazione – con la dicitura “un copione chiamato la Vendetta di Hamlett Principe di Danimarca, recentemente rappresentata dai servitori del Lord Ciambellano”. Quindi l’opera di Shakespeare nel 1602 era già andata in scena, gli studiosi indicano gli anni fra il 1600 e il 1601. Nel 1605, probabilmente a seguito di un accordo con la compagnia del Bardo, Ling pubblica il testo in “una nuova edizione aumentata quasi del doppio della precedente, secondo il testo autentico ed integrale”. Questo è l’in-quarto che avrà varie ristampe fino ad arrivare nel 1623 all’edizione pubblicata nel primo in-folio delle opere complete di Shakespeare.
Il testo usato da Patrizio Cigliano differisce assai dall’in-quarto e dall’in-folio. Per esempio: Polonio e il suo servitore Reynaldo si chiamano nella versione del 1603 rispettivamente Corambis e Montano ma Cigliano ne ripristina i nomi universalmente noti. Altre variazioni assai più importanti condizionano il significato della tragedia: qui la regina Gertrude si convince della colpevolezza di re Claudio e promette ad Amleto di aiutarlo a vendicare il padre. Anche il famoso monologo di Amleto differisce. Nella versione tradizionale il principe dice “To be, or not to be; that is the question”, ma nell’edizione abusiva del 1603 la battuta recita “To be or not to be, ay, there’s the point”. Però siccome anche le differenze fra l’in-quarto e l’in-folio sono notevoli, quello che si può dire è che il testo allestito all’Off Off è una versione popolare mentre le successive si rivolgono a un pubblico più preparato. Ci sono inoltre delle modifiche ulteriori nella messinscena di Cigliano: a un certo momento Polonio intona una filastrocca settecentesca francese, Frère Jacques (si sente anche durante il duello fra Amleto e Laerte) che equivale alla nostra Fra’ Martino campanaro e all’ inglese Three blind mice, tre topolini ciechi. Three blind mice è un radiodramma e un racconto breve del 1947 di Agatha Christie dal quale la grande scrittrice trasse per il teatro Trappola per topi. È lo stesso titolo che Amleto dà al dramma rappresentato dalla compagnia di attori arrivata ad Elsinore: “The mouse-trap”, risponde al re che gli chiede come si chiama l’opera, la trappola per topi. Giochi simili sono deliziosi, soprattutto dimostrano che l’erudizione può stare acquattata sorniona nel popolare. Ed è quanto chiaramente intende fare il regista e interprete avvalendosi di un testo che contiene 15.983 parole contro le 28.628 del 1605 (il più lungo dei copioni shakespeariani) e le 27.602 dell’appena più breve pubblicazione del 1623. Nel cattivo quarto ci sono varie stranezze e incongruenze e da due secoli, dal 1823 quando ne fu scoperta una copia, gli studiosi dibattono, litigano e fabbricano teorie contrastanti sull’argomento. Sotto l’aspetto squisitamente teatrale, le compagnie inglesi che hanno rappresentato questo Amleto dimezzato sostengono che è più agile e facile. Epperò non vi è la finezza psicologica del dramma compiuto; manca la malinconia del principe, la melancolia per dirla in modo etimologicamente più preciso, ossia la bile nera, uno dei quattro umori della fisiologia umana secondo la medicina antica; non si sente il continuo ritardare la vendetta in un dramma che rivoluziona la struttura classica della tragedia, non più combattimento fra forze antagoniste ma indagine sulla natura di queste forze, quindi filosofia in azione, studio e non solo ricostruzione dell’agire umano.
Il prezzo da pagare nella scelta del regista è di fare uno spettacolo non più semplice ma più elementare, un Amleto senza Amleto, deprivato della sua modernità e ricondotto al significato etimologico della parola tragedia, odé, canto, e trágos, capro, un capro espiatorio, sacrificale come tanti altri nel repertorio occidentale. Qui viene il paradosso riguardo rapporto del testo con lo spazio scenico: perché se il principe di Danimarca ritorna a una primigenia natura di eroe tragico, ciò che in via ipotetica si guadagnerebbe in termini di proporzioni grazie alla versione ridotta del dramma, in effetti lo si perde perché al personaggio, deprivato di gran parte della propria complessità interiore, non resta che la fisicità, l’esplosione eroica che una ribalta troppo piccola mal contiene. Comprensibilmente Cigliano interpreta la parte protagonista con grande vigoria ma c’è troppo poco spazio per tutto quel movimento, per tutta quella voce che andrebbe bene in un teatro all’italiana ma che riempie la sala dell’Off Off strabordando in un’esagerazione dovuta alla disproporzione fra volume e ambiente. Anche la violenza dell’odio, l’enormità del dolore, la potenza della disperazione abbisognano d’un po’ di distanza, non solo metrica (in tal caso l’ultima fila di poltrone potrebbe convenire) ma mentale, facilitata da quella che si potrebbe chiamare la respirazione dello spettacolo, l’alternanza di intensità e sospensione, di impeto e trattenimento (in un dramma che peraltro fonda l’azione sul rifiuto dell’azione da parte del protagonista).
Il regista ha voluto che il re Claudio avesse, almeno all’inizio, una caratterizzazione quasi farsesca. Decisione pericolosa perché poi il personaggio deve andare verso la disgrazia, ma l’interprete Nicolò Scarparo lo porta credibilmente dal comico al drammatico. Polonio, soggetto detestabile, anzi disprezzabile perché è un cattivo senza grandezza, trova in Nicola Marcucci una voce grave di timbro e di sostanza che fa da contrappeso agli atteggiamenti ridicolosi del re senza che ciò provochi squilibri nel prosieguo, grazie anche a Shakespeare che lo toglie di mezzo al momento giusto. Sebastian Gimelli Morosini, che fa Orazio, la sera della “prima” soprattutto all’inizio dello spettacolo pareva poco in parte, al punto da mandare Cigliano fuori misura su una battuta durante un dialogo a due. Son cose che capitano e che possono sparire nel corso delle repliche così come la rigidità. Laura Marcucci ha un paio di buoni momenti, in particolare quando Ofelia diventa pazza l’attrice ne fa sentire bene l’insuperabile dolore ma complessivamente la parte appare sminuita da questa versione che lascia poco tempo allo spettatore di affezionarsi al personaggio e compiangerne sentitamente il triste destino. Anche Giulia Ricciardi che fa Gertrude ha un suo momento intenso nella vera e propria scena madre (è il caso di dirlo) con il figlio Amleto, ma appunto è un momento. Il protagonista sta quasi sempre in scena e si “mangia” lo spettacolo più di quanto non faccia nei copioni tradizionali. Rosencrantz e Guildenstern sono rispettivamente Gigi Palla e Cristiano Arsì, a Luca Giacomini la parte di Laerte che affronta Amleto in un bel duello con le moderne sciabole d’allenamento di sala scherma e non con spadoni medievali, nel segno di una semplicità scenica che non dispiace e soprattutto si confà allo spazio. Last, but not least, la voce registrata di Shakespeare è di Leo Gullotta; la voce dello spettro invece è di Gigi Proietti e non è da nascondere il piacere e la nostalgia che si provano ad ascoltare questo grandissimo uomo di teatro scomparso da quasi un lustro.