“Cose che so essere vere” di Andrew Bovell, regia di Valerio Binasco anche interprete assieme a Giuliana De Sio. All’Ambra Jovinelli di Roma
L’eterna lotta dei vecchi e dei giovani
Funziona assai la coppia teatrale formata da Valerio Binasco e Giuliana De Sio che si può vedere all’opera all’Ambra Jovinelli in Cose che so essere vere (Things I know to be true), dramma dell’australiano Andrew Bovell. Binasco firma anche una regia di gran mestiere, al punto che viene voglia di mettersi a pignoleggiare su qualche imperfezione, giusto per giocare, tanto la messinscena è abbastanza solida da reggere anche le perfidie del puntiglio.
Per esempio, in tanta recitazione naturalistica che par di osservare questa famiglia di infelici come fossero mosche chiuse in un bicchiere rovesciato, mandare a turno gli attori in proscenio a monologare rivolgendosi al pubblico e rompendo bellamente la quarta parete, è una contraddizione, una manata al signor Strasberg: “Scansati Lee, che devo fare lo spettacolo”. Conta solo la teatralità e infatti al pedante spettatore tutto teoria, lo sgarbo alla coerenza stilistica non dà fastidio perché la cucina della villetta alla periferia di Adelaide in cui si svolge l’azione è montata su una piattaforma girevole assieme al tavolo da pranzo, le sedie, la poltrona e anche i vasi di piante che simboleggiano il giardino. Non è la riproduzione di una villetta con cucina e giardino ma la metafora di una villetta con cucina e giardino. Siccome per giunta tutta la scenografia (di Nicolas Bovey che cura anche le luci) ruota durante la rappresentazione, si sta nell’antinaturalismo, o in un naturalismo illusorio, che fornisce la giustificazione stilistica a fare i monologhi in proscenio. Binasco conosce le regole dell’arte ma sa come e dove infrangerle. Fastidiose sarebbero anche le didascalie luminose a segnalare le stagioni che si susseguono dall’autunno all’estate e a indicare il nome del personaggio di volta in volta più importante del momento. In teoria non servirebbero: o un testo si spiega da sé oppure manca di qualcosa. Eppure anche qui la scelta della regia è funzionale, fornisce allo spettacolo un ritmo e un tempo che lo rendono più vicino non alla realtà ma alla vita, alla sua inarrestabile ciclicità. Verrebbe da dire inoltre che sfiora la stucchevolezza l’interpretazione di Ben da parte di Fabrizio Costella, il quale recita a mezza strada fra il Dustin Hoffmann de Il laureato e lo Charlie Sheen di Wall street. Actors studio da esportazione, vien da dire. Ma a far l’americano, il personaggio viene meglio perché è uno che vuole accumulare soldi, ha comprato una macchinona che non può permettersi, si sente inferiore ai ricchi, lavora nella finanza e ruba. Pip, interpretata da Stefania Medri, è una delle sorelle, molla il marito e la prole per andare a Vancouver, in Canada, tredicimila chilometri di distanza, dove le hanno offerto un posto di lavoro e soprattutto dove abita il suo nuovo amore, anche lui sposato con figli. Un altro fratello, Mark (Giovanni Drago), pure ha un problema serio perché si sente donna e sta per cominciare la cura ormonale. L’ultima, la sorella più piccola, Rosie, affidata a Giordana Faggiano, è tornata da un viaggio in Europa. Sta quasi sempre in scena e assiste desolata ai sismi che scompigliano la famiglia, causati dalle improvvise emersioni delle verità. Fran e Bob, De Sio e Binasco, i genitori, credono di avere fondato la famiglia felice, invece è un disastro. Lei madre perfetta con trentacinque anni di attenzioni e cure verso i figli, di loro nulla ha capito salvo quanto ha voluto capire e siccome a cattivo intenditore tante parole, è verbosa, lamentosa, predicatoria, a volte urla, persino aggressiva con i suoi ragazzi, diventati ciascuno tutt’altro da quanto sperava. Bob è un vecchio maschio in pensione che si rifugia nel giardinaggio, un padre ormai impotente, superato dalla vita, dalla nuova generazione, credulo anche lui all’illusione della famiglia perfetta ma al contrario della moglie rinunciatario, salvo qualche istante di protesta. In questo dramma i ribelli sono i vecchi, mentre i giovani non cercano di cambiare il mondo, come hanno tentato i loro genitori baby-boomers, ma solo di fare la loro vita. La rivoluzione può attendere.
I due caratteri sono scritti per essere palesemente diversi e in contrasto, il che per due attori come De Sio e Binasco vale un invito a nozze (anche se il matrimonio fra i personaggi è stantio). Non solo ciascuno s’occupa di perfezionare il proprio personaggio e di dargli credibilità ma non perde di vista l’altro. La coppia coniugale deve rimanere credibile ed è da evitare che lo spettatore si domandi cosa ci stanno ancora fare quei due insieme. De Sio è energica, a volte persino frenetica, mamma e moglie irrequieta piena di cose e cosette da adempiere, in perenne agitazione per non farsi sommergere da figli fuori del suo controllo, ma non va mai sopra le righe, ha la sicurezza dell’attrice che non sente il bisogno di esagerare, di caricare inutilmente il personaggio. Binasco deve invece oscillare fra rassegnazione e guizzi improvvisi che sono però tentativi di sottrarsi all’impotenza, ma non svuota il personaggio con la debolezza e non lo rende ridicolo con scatti isterici, ma lo tiene in equilibrio sul filo dell’acquiescenza, dell’accettazione senile delle cose così come vanno. In fondo il dramma di Bovell sta nella tradizione della vecchia commedia classica, di Molière o di Goldoni: il conflitto fra i vecchi e i giovani. Nulla cambia, l’importante è che sia nuovo.