“Divagazioni e delizie” di John Gay, regia e interpretazione di Daniele Pecci. Al teatro Parioli di Roma

Daniele Pecci

I registi sono inutili ma servono

I monologhi sono come i piccioni e i turisti, troppi stroppiano. Da anni i palcoscenici sono invasi da soliloqui, flussi di coscienza, one-man e woman show. Si sperava che il fenomeno, dovuto a vari fattori, produttivi anzitutto, scemasse e invece al pari di turisti e piccioni pare moltiplicarsi. Però vi sono dei testi che meritano d’essere messi in scena anche se si presentano come, per dirla in modo raffinato, partiture per attore solo. Uno è Divagazioni e delizie (Diversions and delights), una conferenza simulata di Oscar Wilde scritta da John Gay, famoso sceneggiatore californiano scomparso nel 2017. Lo ha tradotto e lo interpreta dirigendo se stesso Daniele Pecci al teatro Parioli di Roma.
La “prima” italiana avvenne nel maggio del ’79 all’Eliseo con la regia di Giorgio De Lullo e l’interpretazione di Romolo Valli, il quale recitava in proscenio a sipario chiuso. Era quindi un monologo di fine stagione, non il secondo spettacolo in cartellone come lo propone il Parioli. Valli si presentava senza identificarsi con il personaggio di Oscar Wilde così descritto nel copione di Gay: “Alto, grosso, imponente, lento nei movimenti, Wilde ha ripreso i chili che aveva perso in prigione e adesso tende alla corpulenza con un volto esangue, glabro, dalla pelle ruvida” e in cattive condizioni di salute. Pecci invece preferisce avvicinarsi al personaggio, alla pinguedine, alla lentezza, al decadimento e si presenta in cravatta bianca. Un po’ di filologia vestimentaria non fa male epperò quasi certamente (il beneficio del dubbio è d’uopo) mai Oscar avrebbe indossato il frac dell’attore con un gilet bianco che spuntava di vari centimetri sotto il corpetto della giacca, come vogliono certi stilisti d’oggi. La faccenda qui si fa wildianamente complicata. Nel suo saggio La filosofia del vestire lo scrittore mette al corrente il lettore del suo disdegno della moda che, incurante dell’individualità dei suoi adoratori, impone a tutti d’esser vestiti alla stessa maniera. “Mentre l’Arte – osserva – permette, anzi ordina a ciascuno, quella perfetta libertà che deriva dall’obbedienza alla legge e che è di gran lunga migliore per l’umanità della tirannia dell’allacciatura stretta o dell’anarchia delle tinture all’anilina”. La perfetta libertà deriva dall’obbedienza alla legge e come il teatro il bianco del gilet non deve scendere fino all’eccesso di libertà né cadere nella tirannia della moda. Sono cose di massima importanza che solo la stupidità umana considera stupide.
Gay immagina Wilde in un teatro parigino a dare spettacolo di sé la sera del 28 novembre 1899, esattamente un anno prima della sua morte il 30 novembre del 1900. Il famoso irlandese, caduto in disgrazia dopo la condanna per omosessualità e gli anni di carcere, parla nella prima parte della sua conferenza di serissimi argomenti bagatellari – la poesia, il teatro, la società – e ne disserta con i suoi famosi aforismi, le battute, i paradossi, le facezie sugli artisti, l’immoralità dell’arte, i critici letterari e teatrali, insieme a cose varie, la natura, la società, gli americani.
Gay monta la conferenza avvalendosi della corrispondenza di Wilde (in particolare le lettere che scrisse al suo ex amante Robert Ross, giornalista canadese), di un ciclo di discorsi che lo scrittore tenne in America latina negli anni Ottanta dell’Ottocento e di vari suoi saggi come L’anima dell’uomo sotto il socialismo, La decadenza della menzogna e Il critico come artista. Si entra poi in un secondo momento e il taglio divertente, critico e aforistico del monologo prende una piega malinconica, si entra in una dimensione esistenziale, nella confessione, nell’autobiografia dolente, nel De profundis che Wilde scrisse nel 1897 recluso nel carcere di Reading. Il passaggio dal piano ironico, scanzonato, divertente a quello drammatico non è semplice, è una discesa delicata da preparare accortamente per meglio accompagnare il pubblico. E qui ci vorrebbe una regia che aiuti l’attore fino a questo momento bravo, spigliato, giusto nei tempi, sarcastico, caustico, wildiano se si vuole. Ora Daniele Pecci deve affrontare il Wilde degli ultimi giorni, del tramonto, della disillusione che parla del suo amante Lord Alfred Douglas, detto Bosie, e dice: “Com’è strano voltarsi e guardare una vita così piena di intensità emotiva e di gioia, trovare che sembra solo illusione. La vita ci imbroglia con ombre e in qualche grigia, ventosa alba di silenzio, ci sorprendiamo a guardare con meraviglia un cuore di pietra che una volta avevamo così follemente venerato e così pazzamente coperto di baci. Bosie. Due anni di prigione”. La discesa pertiene a Oscar Wilde, non allo spettacolo; l’interprete non immalinconisce solo il personaggio ma tutta la rappresentazione.
Un grande attore quale fu Romolo Valli s’appoggiò a un metteur en scène di talento indiscutibile come Giorgio De Lullo. I registi sono inutili ma qualche volta servono.

Marcantonio Lucidi,
Stampa Stampa

I commenti sono chiusi.