“Feriti per sempre” di e con Silvia Luzzi. Al teatro Le Maschere di Roma

Feriti per sempre

Domani, dopo la guerra, ricordati di me

Un’interprete, un testo. La forza del teatro si vede specialmente quando si presenta nella sua essenzialità pauperistica, nella sua magrezza. Si può fare ovunque, in qualsiasi condizione, in un villaggio di indiani Tupi-Kawahib nella foresta brasiliana, come ha raccontato Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici, oppure in un teatro da novantanove posti di Trastevere, Le Maschere, dove Silvia Luzzi attrice e autrice porta in scena il suo monologo Feriti per sempre.
Due storie che arrivano dalla seconda guerra mondiale: la prima racconta di suo padre, del quale l’attrice ha ritrovato il diario, che viene arruolato a vent’anni nel ’43 e scrive di bombe, di munizioni, sigarette, viveri (due caramelle, un pezzo di cioccolato e tre fichi secchi), razioni K che chiama pacchi. I commilitoni caduti sotto il fuoco nemico, i soldati saltati sulle mine. I mariti che vendono le mogli, i padri che vendono le figlie, i fidanzati che vendono le fidanzate. Tutte le guerre si somigliano. Gli uomini si somigliano in tutte le guerre. Si sente “Se potessi avere mille lire al mese / Senza esagerare, sarei certo di trovare / Tutta la felicità”. È l’Italia delle nostre nonne, e ormai anche bisnonne, che tracciavano con la matita la riga di calze inesistenti e tagliavano le camicette con la stoffa dei paracadute. Il secondo racconto è la guerra vista da una donna, Elena di Montepulciano in provincia di Siena. Il mattino del 28 maggio 1944 il cielo è rannuvolato dai bombardieri. Al podere di Bossona s’è fatta la colazione con la mortadella, ora si va pe’ i campi a lavorare. Parla il toscano della Val d’Orcia l’attrice, che è maremmana, oltre l’altro versante dell’Amiata, è una lingua di gente che conosceva a memoria la Divina Commedia e andava di paese in paese a declamarla. Sono sempre stati piuttosto civili da quelle parti, contadini rispettosissimi della cultura, dei maestri di scuola, dei poeti a braccio in ottava rima. Da un aeroplano si stacca una bomba che cade qua sotto e uccide tutta la famiglia di Elena. Non hanno voluto bombardare la famiglia di Elena, solo si è sganciata una bomba. È lei è sopravvissuta, ferita per sempre, come il padre dell’attrice. Silvia Luzzi bambina non capisce che significa il ticchettio che viene dalla cucina in cui si sono chiusi i genitori. È il rumore delle schegge di bomba che la madre getta in un bicchiere dopo averle estratte con la pinza dalla gamba del padre. Tutto questo è raccontato con molta dolcezza, con semplicità, senza dare a vedere la tecnica recitativa che pure c’è, ma resta soggiacente perché “La mia piccola rondine parti senza lasciarmi un bacio, senza un addio parti. Non ti scordar di me.”

Marcantonio Lucidi,
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