“Agosto a Osage County” di Tracy Letts, regia di Filippo Dini anche interprete insieme con, fra gli altri, Anna Bonaiuto, Manuela Mandracchia. All’Ambra Jovinelli di Roma.

Agosto a Osage County

L’inferno è il nostro fratello

A teatro si parla molto spesso della famiglia. In fondo, l’Antigone di Sofocle è una faccenda di famiglia, anche Amleto, Riccardo III, Re Lear e pure Il malato immaginario e l’Arlecchino servitore di due padroni per non parlare dei drammi di Eduardo e Pirandello. La famiglia a teatro si nasconde nei titoli e nei posti più impensati, persino nei bidoni dell’immondizia dove vivono Nagg e Nell, i genitori di Hamm in Finale di partita di Beckett.
Parlare di famiglia agli esseri umani è come parlare di peste ai topi e di risse ai gatti perché non è vero che “l’inferno sono gli altri” come dice Garcin in A porte chiuse di Jean-Paul Sartre. L’inferno è un padre alcolizzato, una madre paranoica, umorale, dipendente dagli psicofarmaci con un cancro alla bocca per le troppe sigarette, una figlia che non si fa vedere da anni perché non sopporta la genitrice, un marito professore universitario che va a letto con una studentessa. Si avanza così, in mezzo a tradimenti, suicidi, litigi, arrabbiature, cattiverie, aggressioni, per tre ore intervallo compreso (il tempo percepito è circa due ore per lo spasso, che è al teatro ciò che l’aria fresca è alla meteorologia).
La tragicommedia americana di Tracy Letts Agosto a Osage County è in scena all’Ambra Jovinelli di Roma. Regia intelligente, profonda, teatrale, anzi “teatrosa” di Filippo Dini; ottima la traduzione di Monica Capuani; un gruppo di attori superbo che annovera Anna Bonaiuto, Manuela Mandracchia, lo stesso Dini, Fabrizio Contri, Orietta Notari e altri sette interpreti perfetti per questa macchina drammaturgica da fare funzionare come un mattatoio. L’animale umano entra per essere macellato, scorticato, scarnificato nelle sue parti caratteriali e psicologiche più intime. Ed esce incommestibile, questo è l’aspetto umoristico della storia. Il bello della commedia è che non si salva nessuno, l’innocente non esiste (forse solo la cuoca, una cheyenne): gran soddisfazione per gli spettatori che, migliori o peggiori dei personaggi in scena, ottengono conferma che l’inferno non sono gli altri ma i parenti e che Sartre non aveva capito niente (opinione condivisa da Heidegger).
Non sarebbe giusto rivelare come procede l’azione perché l’intrico di comportamenti primordiali e selvaggi non deve essere depotenziato dal raccontino della trametta e chi ha visto il film del 2013 di John Wells August: Osage County (titolo italiano I segreti di Osage County e non si capisce quali segreti, qui è tutto spiattellato) deve avere l’accortezza di dimenticarlo entrando in sala. Non è facile cancellare dalla memoria la prova di artisti del calibro di Meryl Streep, Julia Roberts, Ewan McGregor, ma la formazione di questa edizione teatrale italiana non fa rimpiangere nessuno.
Il fatto è che in Italia siamo esperti di mamme e famiglie, non abbiamo una nazione ma abbiamo le tribù, prima fra tutte quella dello spaventoso, intramontabile, beffardo Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola che ha girato anche La famiglia (uno specialista, Scola), oppure Speriamo che sia femmina di Monicelli o ancora Gruppo di famiglia in un inferno, no, in un interno di Visconti. Quindi allestire drammi familiari in Italia, dove tutto si svolge fra cucina e tinello, è come vendere in Francia storie di corna fra salotto e camera da letto e omicidi in giardino agli inglesi. Eppure anche per noi italiani la commedia è gradevolissima come una frustata sulla schiena del nostro cognato.
La scenografia mobile e girevole è di Gregorio Zurla: molto teatrale e pratica, permette cambi veloci e non sdraia mai l’azione a terra in attesa che arrivi il divano della scena successiva. La regia ha tecnicamente una gran mano e poeticamente una pietas per questa gente che non fa altro che litigare, arrabbiarsi, detestarsi. È da osservare il lungo passaggio in cui la famiglia riunita intorno al tavolo da pranzo salta sopra la mina di una rissa fra madre e figlia. Dini monta la scena impietosamente e pietosamente, la offre cruda e violenta ma si sente lo sguardo indulgente del regista che osserva degli esseri intenti a sbudellarsi l’un l’altro e a rendersi desolatamente grotteschi. Rovesciarsi le trippe addosso è irragionevole prima ancora che crudele. Sotto alla tragedia c’è sempre la commedia e viceversa perché l’esagerazione è la sorella della ridicolaggine e la guerra la gemella dell’idiozia (infatti “le ridicule tue”, dicono i francesi, il ridicolo uccide). Un bravo regista come Dini lo sa e gioca con i paradossi, soprattutto se sono apparenti. Poi naturalmente è tutto più facile se si dispone d’una simile compagnia di attori che oltre ai citati interpreti si avvale di Andrea Di Casa, Fulvio Pepe, Stefania Medri, Valeria Angelozzi, Edoardo Sorgente, Caterina Tieghi, Valentina Spaletta Tavella.

Marcantonio Lucidi,
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