“Agnello di Dio” di Daniele Mencarelli, regia di Piero Maccarinelli, con Fausto Cabra, Viola Graziosi, Alessandro Bandini e Ola Cavagna. Al Parioli di Roma

Agnello di Dio

Il mondo si divide nei vincenti e nei loro figli

Non si ripeterà mai abbastanza agli scrittori di romanzi – in ispecie italiani ai quali, a parte casi individuali, la nostra scuola non ha fornito una formazione teatrale – che il teatro non è letteratura dialogata. Non basta usare esclusivamente il discorso diretto – Tizio due punti battuta – per fare drammaturgia. È necessaria un’azione, ossia una trasformazione dei personaggi e della situazione sul filo dei dialoghi. Altrimenti quando va bene si fa della dialettica, tecnica discorsiva atta a presentare gli argomenti dimostrativi di un assunto, abilità volta a persuadere un interlocutore, a far trionfare il proprio punto di vista su quello dell’antagonista. La differenza fra teatro e letteratura è la stessa che corre fra fare e raccontare.
Queste cose Piero Maccarinelli le sa bene, e si vede da come al Parioli di Roma ha messo in scena Agnello di Dio di Daniele Mencarelli. Il regista imposta lo spettacolo sulla massima resa interpretativa degli attori e su una serie di movimenti montati per rendere scenicamente dinamica una situazione drammaturgicamente ferma dalla quale i personaggi escono in buona sostanza immutati rispetto a come vi sono entrati (a parte uno e parzialmente). Questo è il testo di esordio nel teatro di Mencarelli, vincitore del premio Strega Giovani 2020. Qui occorre una digressione: Strega “giovani” non per l’età dell’autore (Mencarelli era quarantaseienne quell’anno) ma perché il voto è dato da una giuria di liceali sui dodici candidati allo Strega: i vincitori più giovani dalla prima edizione nel 2014 sono stati Marco Missiroli nel 2019 e Giuseppe Catozzella nel 2014, trentottenni quando furono premiati, età da padri e in qualche caso, siccome è biologicamente possibile, persino da nonni. In Italia prima che uno scrittore venga premiato deve avere scritto come minimo l’opera fondamentale della sua produzione letteraria, il testamento. Questo grottesco andazzo molto italiano, questa nostra gerontocrazia moderata dalla calvizie è uno dei temi di conversazione da dopo teatro che si può trarre dallo spettacolo.
Una delle ragioni che probabilmente hanno indotto Maccarinelli a scegliere il testo di Mencarelli è rivelata da un gruppo di spettatori che sostavano impegnati in conversari all’uscita del teatro dopo lo spettacolo. Discutevano dei rapporti fra padri e figli, dello scontro intergenerazionale, della giovinezza, della maturità, dei valori che la scuola e la famiglia devono o dovrebbero trasmettere.
L’ufficio di Suor Lucia, preside di una scuola cattolica prestigiosa, è il luogo di una lotta verbale fra Marco, supermanager con ipercarriera in una multinazionale, e il figlio Samuele, diciassettenne in crisi grave perché il sistema, l’istruzione e la famiglia, lo stanno portando a diventare ciò che lui non vuole, quella schifezza di suo padre: cinico, arrivista, egoista, egotista, borioso, sprezzante, socialmente un maschio alfa, umanamente omicron. La suora rappresenta l’istituzione: il conformismo della moderazione, il conservatorismo dell’equilibrio, la complicità della normalizzazione. Poi si scoprirà che è abitata dal rancore revanscista di un’arrampicatrice dalle origini familiari di un’umiltà a lei insopportabile. E che nel suo passato di figlia del bidello della stessa scuola che ora lei dirige, si cela un episodio molto doloroso in cui è coinvolto Marco, ex allievo dell’istituto: un fatto non esplicitato dall’autore ma volutamente lasciato in ombra che apre nell’epilogo il tema del perdono e consente al personaggio, l’unico del dramma, un’evoluzione.
Si può sostenere che il dialogo dei tre suona a volte un po’ scontato, anche perché si tratta di una situazione presentata come esemplare, quindi la caratterizzazione dei personaggi mediante luoghi comuni è giustificata. Il padre: “Il mondo è diviso in vincenti e perdenti, è una legge di natura”. Il figlio: “Io non ti conosco e tu non conosci me, sei vuoto, vuoto”. La preside: “Noi formiamo la classe dirigente del paese”. Altre battute di cui non c’è bisogno di indicare chi le pronuncia: “Sei gay? Ti droghi?”, “Vorrei vivere da uomo libero”, “La carità e l’amore sono le nostre stelle polari”. La faccenda è chiara: i due adulti intendono piegare la resistenza del ragazzo all’irreggimentazione. L’adolescente rappresenta il lato di una ribellione giovanile generata dall’angoscia e dal disaccordo, l’altro essendo descritto dalle cronache su studenti a tendenza criminale che insultano, a volte picchiano gli insegnanti e persino  sparano loro addosso pallini di gomma per registrare il video e avere più follower sui social.
C’è un quarto personaggio, Suor Cristiana, l’anziana consorella della preside che lavora nella scuola da mezzo secolo. Figura fondamentale per tutto lo spettacolo. Maccarinelli, che firma anche la scenografia e i costumi, mette due porte, una a destra e una a sinistra di modo da permettere a Suor Cristiana di attraversare motivatamente tutto il palcoscenico in più di un’occasione e con una serie di entrate e uscite produrre variazioni di ritmo, chiudere e aprire le fasi del dramma, alzare l’attenzione del pubblico e lavorare sulle tensioni fra gli altri tre personaggi. Maccarinelli aiuta così anche l’autore, il quale ha affidato alla sorella anziana il proprio punto di vista e soprattutto il messaggio: Suor Cristiana, il nome non pare scelto a caso, è portatrice di un cristianesimo semplice e amorevole, è lei la “piccola” dei Vangeli, l’anima candida che attraverserà facilmente la cruna dell’ago ed entrerà nel regno dei cieli, al contrario degli altri due adulti contorti, inautentici, farisei. Al figlio invece il mistero di un futuro generato dalla libertà di scelta.
Fausto Cabra (Marco, il padre), Viola Graziosi (Suor Lucia, la preside) e Alessandro Bandini (il figlio Samuele) portano i loro ruoli come vestiti di sartoria, stanno dentro la regia con fedeltà e attenzione. Maccarinelli non commissiona ai suoi interpreti l’errore di soverchiare il testo e punta sulla forza del dramma inteso come dolore. Ad Ola Cavagna che interpreta Suor Cristiana con poche battute e una presenza scenica calcolata quasi al minuto, il compito riuscito di estrarre dal personaggio tutto il significato della storia.

Marcantonio Lucidi,
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