“Non c’è niente da ridere”, di Peppe Barra e Lamberto Lambertini anche regista. Con Peppe Barra e Lalla Esposito. Al Parioli di Roma

Non c'è niente da ridere

Come polpa di noce nel guscio

Bisogna ammettere con serenità qual è la differenza fra Napoli e il resto d’Italia: gli italiani fanno il teatro, a volte anche molto bene, ma i napoletani sono il teatro.
Lo spettacolo di Peppe Barra in scena al Parioli di Roma assieme a Lalla Esposito con Non c’è niente da ridere, inizia e finisce con Pulcinella, un luogo comune della tradizione vesuviana. E la malizia dello spettatore sospetta che gli si voglia propinare il solito folklore acchiappa-pubblico sul genere della tarantella sorrentina per turisti americani di Winnemucca, Nevada, con servizio navetta compreso nel biglietto. Invece Barra, anche autore del testo assieme a Lamberto Lambertini, usa la maschera, ovviamente da lui stesso indossata, come pretesto per entrare e uscire dallo spettacolo. Pulcinella è morto e torna a Napoli a cercare la sua Colombina, la trova e partono le canzoni, le gag, i bisticci, i duetti, fino all’ultima scena che non è delittuoso rivelare nella quale i due se ne vanno in Paradiso. Finale che sarebbe sdolcinato più d’un babà alla crema se tutto non fosse d’una brillantezza, d’una ironia gioiose, a volte anche sarcastiche, d’un umorismo a momenti salace ma ingenuo da ballo del tuca tuca, una licenziosità birichina come un reggiseno che dondola appeso alla bancarella dell’intimo femminile nel giorno di mercato sulla piazza del paese.
In sostanza si tratta d’un varietà, che viene dalla contrazione di arte varia, quindi scenette, macchiette, canzonette e balletti ritrovati in una soffitta del vecchio teatro comico partenopeo e rimessi a nuovo con invenzioni, rimaneggiamenti, scherzi, allusioni, giochi di parole e doppi sensi. La storia di Pulcinella che torna dalla morte è certamente di Libero Bovio (Napoli 1883 – 1942). Bovio non lo hanno dimenticato dalle parti sue, è stato un bravo commediografo e poeta dialettale e un autore di canzoni di Piedigrotta. Ci sono allusioni e raffinate manipolazioni dell’Assunta Spina del grande Salvatore Di Giacomo e di Filumena Marturano dell’ancor più grande Eduardo. Barra comico del variété in scena fa quello che vuole, come e quando vuole perché se lo può permettere; Esposito è una soubrette di bravura rara, capace di mettere poesia nel grottesco, malinconia nel comico, serietà nella farsa, prosa nel canto e melodia nella prosa. I due insieme fanno venire voglia anche all’invitato che non ha pagato il biglietto di precipitarsi al botteghino a dare il suo contributo alla paga degli artisti. La scena di Carlo De Marino è perfetta per uno spettacolo di tal fatta, da innamorati dell’arte: l’interno di un teatro all’italiana, dal punto di vista degli attori, con le quinte girate e le file dei palchi sul fondo. I costumi di Annalisa Giacci sono molto ironici, sono dei divertissements colorati sul café-chantant.
A un certo punto lo spettacolo si mette sul parigino, nel senso che offre una parodia, ambientata a via Toledo, della Cantatrice calva di Eugène Ionesco, in particolare la quarta scena in cui i coniugi Martin scoprono, attraverso la ricostruzione di coincidenze a loro inspiegabili, di essere sposati. Il dialogo è tutto rimaneggiato secondo una vecchia abitudine partenopea di napoletanizzare le commedie, le pochades e i vaudevilles francesi. Uno specialista di questi comici furti è stato Antonio Petito (Napoli 1822 – 1876), il miglior Pulcinella dell’Ottocento, maestro di Eduardo Scarpetta, il padre dei fratelli De Filippo. In nome del teatro e del pubblico, Petito non aveva rispetto per niente e per nessuno. Sua una presa in giro di D’annunzio, la Francesca da Rimini – Tragedia a vapore stravesata da Pulcinella Cetrulo, da don Asdrubale Barilotti, da Monsù Patrecutenella e da Schiattamorton. Petito morì in scena al San Carlino d’un colpo apoplettico, neanche s’ebbe il tempo di portarlo a casa come avvenne per Molière.
Erano gli anni in cui Napoli rigurgitava di teatri, uno ogni 26.000 abitanti: il San Carlo, il teatro del Fondo di separazione dei lucri (per l’opera e i balli) che poi diventa il Mercadante, il teatro Nuovo (per l’opera), la Fenice (per l’opera buffa), il teatro dei Fiorentini, dove si davano opera buffa e spettacoli di prosa in lingua e in dialetto, il San Ferdinando che proponeva un repertorio simile, il San Carlino a Piazza Municipio che fu il palcoscenico d’elezione (e di morte) di Petito; il Sebeto; il Partenope, il teatro della Pietà de’ Turchini, nel quale si rappresentavano spettacoli di pupi e naturalmente il Silfide alla Marina del Carmine, ch’era il teatro della madre di Petito, Maria Giuseppa Errico detta Donna Peppa, ballerina, attrice e impresario teatrale sposata a Salvatore, altro Pulcinella di fama.
Lo spettacolo si ispira a quel mondo, lo rievoca, lo accarezza con la delicatezza che s’userebbe per un vecchia bombetta di Gustavo De Marco, l’inventore dell’uomo-marionetta, detto anche comico-zumpo, e antesignano di Totò. Non vi è nostalgia, al contrario è tutta una sarabanda indiavolata, costruita però sul modo di fare teatro d’un tempo che fu. E resta uno dei migliori modi possibili. Barra appartiene a quella tradizione, suo padre Giulio era un fantasista; la madre, come noto, la famosa Concetta. E siccome è anche un talento naturale, sta in scena come la polpa d’una noce nel guscio. Quanto a Lalla Esposito, bisogna ammetterlo con serenità: da napoletana neppure lei fa teatro, lei è teatro.
Musiche di Giorgio Mellone eseguite dal vivo da Giuseppe Di Colandrea (clarinetto), Agostino Oliviero (violino e mandolino), Antonio Ottaviano (pianoforte).

Marcantonio Lucidi,
Stampa Stampa

I commenti sono chiusi.