“Conta che passa la pazza” di e con Irma Ciaramella diretta da Francesco Maria Cordella. Al teatro Porta Portese di Roma.

Conta che passa la pazza

Al teatro piacciono i folli, non la follia

Un vecchio principio dell’arte dell’attore dice che non è possibile recitare l’amore ma l’innamorato, non la gelosia ma il geloso. Vale anche per la malattia mentale o meglio, nel caso dello spettacolo scritto e interpretato al teatro Porta Portese da Irma Ciaramella, per la patologia neurodegenerativa che distrugge la memoria, l’Alzheimer. Non si può interpretare un sentimento o una condizione, ma il personaggio che li vive. Il pazzo e non la pazzia. Per questa impossibilità il teatro non è letteratura, non descrive l’agire ma lo mette in scena. E sceglie se essere poesia in azione, ossia canto sull’uomo, oppure filosofia in azione, riflessione sugli uomini.
Si vede che dietro questo spettacolo intitolato Conta che passa la pazza, c’è un faticoso lavoro di prove da parte dell’attrice, una ricerca dei movimenti, delle intonazioni, dei tempi, insomma uno scavo del personaggio, come si dice. Però il personaggio fuor di contesto rischia di significare poco: Achille senza la guerra di Troia è un qualunque mister Muscolo di borgata. Quando Aiace Telamonio diventa pazzo perché gli vengono negate le armi di Achille caduto in battaglia e incomincia a uccidere pecore scambiandole per gli Achei di cui vuole vendicarsi, Sofocle non lo mette a narrare la sua follia, ma narra le sue gesta da folle: “E il capo / troncava agli uni, e, il capo su levandone, / sgozzava questi, e in due squarciava, e, stretti / gli altri nei ceppi, li sconciava, come / uomini fossero; e infiería sui greggi”.
Alla fine della prima rappresentazione, l’autrice e attrice dopo gli applausi si è rivolta alla platea ricordando il padre. Si capisce che lo spettacolo consegue da un’esperienza familiare talmente forte che Ciaramella non riesce a trasformarla in metafora teatrale ma affonda il suo flusso verbale in un lirismo letterario che poi è il pericolo maggiore dei monologhi. Il personale può rivelarsi nemico del teatrale perché tende a fare della rappresentazione una catarsi per l’artista e non per lo spettatore.
La regia di Francesco Maria Cordella, il quale ha curato anche le luci e le musiche, organizza un’ambientazione cupa e intimista ad evocare la scena d’una mente colpita dalla malattia. La gabbia che imprigiona l’attrice rappresenta il carcere dell’oblio. Il teatro della mente può dispiegarsi ormai solo in uno spazio interiore minimo, una piccola cella di memoria abitata da una condannata alla privazione dei ricordi, a un ergastolo del pensiero peggiore della morte. La protagonista canta  ‘E spingule francese, poi dice: “La luce di Roma si perdeva nelle strade e forse è stato allora che ho cominciato a perdermi”. Oppure “Non ricordo se sono stata felice, se avevo una bella casa e se facevo il gâteau di patate”. Legge su un bigliettino che ha un figlio di nome Kevin e dopo afferma “A Gerico mi lapidarono”. Cose sparse: il medico; le cosce di Circe; pianti, disperazione, risate matte; il nome e la professione del personaggio (Gina, cantante lirica). È il tentativo di mostrare il disordine del cervello ma l’illogicità contiene il pericolo per il quale qualsiasi cosa può essere detta e qualsiasi cosa detta può non esserlo. Tuttavia, il teatro accetta l’illogico ma rifiuta l’insensato e se tutto è giustificabile allora nulla è giustificato.

Marcantonio Lucidi,
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