“Buoni da morire” di Gianni Clementi, regia di Emilio Solfrizzi, con Debora Caprioglio, Pino Quartullo e Gianluca Ramazzotti. Al Quirino di Roma

Buoni da morire

Il fascino indiscreto del barbone

Al Quirino di Roma “Buoni da morire”, è una commedia brillante scritta da Gianni Clementi e messa in scena da Emilio Solfrizzi che dirige un trio di attori adatti al genere: Debora Caprioglio, Pino Quartullo e Gianluca Ramazzotti.
Pensato, scritto e allestito per intrattenere, questo testo –  come ogni forma di divertimento, come una delle pièce di Feydeau, insuperabili nel raccontare la Terza repubblica francese – mostra qualcosa dell’oggi, ossia che la borghesia italiana esiste ancora anche se nell’accezione di Max Weber, ossia fondata sull’etica protestante del lavoro, non è mai stata in buona salute. In Italia, si può essere borghesi anche senza fare nulla. Tuttavia Emilio, uno dei tre personaggi della commedia, un mestiere ce l’ha, anche assai remunerativo, fa il cardiochirurgo. Sposato, forma con Barbara una coppia assai benestante di mezza età (più due terzi che mezza). È il giorno di Natale, i due hanno passato la vigilia a fare volontariato e portare generi di conforto ai barboni, quindi sono andati a dormire molto soddisfatti della loro bontà. Il mattino successivo, però, 25 dicembre, a casa loro – bell’appartamento, salotto con divano e poltrona bianchi Chesterfield, argenteria nelle bacheche, vetrata che dà su un terrazzo – si presenta un barbone avvinazzato, sporco e puzzolentissimo con carrello del supermercato pieno di sacchi di plastica. Si chiama Ivano, è un vecchio compagno di scuola dei due coniugi finito in mezzo alla strada per avere buttato i soldi in donne, alcol e spinelli.
La situazione costruita nel primo atto si regge sull’ipocrisia del borghese che fa beneficenza purché il poveraccio non gli entri in casa a disturbargli la giornata e insudiciare il costoso divano. Il secondo atto è un po’ prevedibile negli accadimenti, salvo il colpo di scena finale che serve soprattutto a chiudere lo spettacolo più che a sciogliere un intrigo che sostanzialmente non c’è. Qui contano le relazioni fra i personaggi, lo scontro fra due opposte visioni maschili della vita che la donna si trova a confrontare. Dopo essersi fatto un buon bagno e tagliato barba e capelli, Ivano diventa l’avventura senza la puzza, la strada senza la fogna mentre il marito resta il comodo benessere con la noia.
La morale forse è che non si può avere tutto, che il maschio è una cosa o un’altra, un essere limitato che non riesce ad essere uno, figuriamoci bino. Oppure la morale è che la memoria è un vaso di Pandora che ognuno deve tenere sigillato nella propria mente perché se i fantasmi del passato capitombolano nel presente, cominciano i guai.
Regia semplice e lineare di Emilio Solfrizzi per una commedia necessitosa in primis di attori briosi capaci di divertire senza fissarsi sulla battuta che fa ridere perché in alcuni momenti si sfiora la nostalgia per ciò che poteva essere e non è stato. Quindi sono del tutto meritati gli applausi finali per i tre interpreti: Debora Caprioglio sta bene nel personaggio della signora borghese sospirosa di trasgressioni; Pino Quartullo non esagera il carattere del viveur sciupafemmine e scapestrato fino a una romantica rovina da clochard; Gianluca Ramazzotti deve invece fare quasi il contrario con un ruolo più rigido (perché il cardiochirurgo è un carattere imbalsamato nel perbenismo) e riesce a muoverlo rendendolo vivace e divertente.

Marcantonio Lucidi,
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