“L’indecenza e la forma” di Giuseppe Manfridi, con Francesca Benedetti diretta da Marco Carniti. Al teatro Basilica di Roma

L'indecenza e la forma

Pasolini nel cielo coperto di fango

È molto giusta la scenografica strada asfaltata con le strisce bianche orizzontali a separare la carreggiata per il monologo scritto da Giuseppe Manfridi, L’indecenza e la forma, interpretato al teatro Basilica di Roma da Francesca Benedetti diretta da Marco Carniti. Questa strada asfaltata punta verso il pubblico, illuminata da un proiettore in controluce come faro nella notte d’una Alfa Romeo Giulia 2000 Gt veloce grigio metallizzato del 1972 e viene addosso allo spettatore che adesso sentirà il rumore terribile dell’anima di Pier Paolo Pasolini, lupo notturno a caccia di carne viva, giovane, succulenta per un predatore divorato dalla brama. Con la Giulia, auto sportiva di punta dell’Alfa Romeo che gli procurò accuse di doppiezza borghese, Pasolini andò all’Idroscalo di Ostia dove morì atrocemente. Il suo aiuto regista per il Vangelo, che gli voleva molto bene, commentò sconsolato: “Il suo destino era quello”. Come si racconta il destino di un poeta licantropo, di un cristiano mannaro?
Molto giusto anche il titolo, L’indecenza e la forma, testo di lava, denso fluido bollente di oscenità, sodomie, cannibalismi sessuali che scorre come italiano perfetto, prosa translucida di alto piacere linguistico e di contenuto melmosissimo, come un bicchiere di cristallo (la forma) traboccante di fango (l’indecenza).
Non v’è pace qui dentro per l’interprete, lo sforzo che deve fare è grande, la fatica molta, perché la decisione è stata presa di tenere il testo nelle mascelle della tragedia, stridore di denti, masticazione del fato, urla d’anima, Pasolini nella stanza della tortura come dice il sottotitolo, e s’evocano e rievocano Saturno divoratore dei figli sanguinanti nella sua bocca, la madre e il padre del poeta, il fratello, il caldo ventre infetto della famiglia che digerisce la progenie ingoiata. Sarebbe lì dentro quindi che cresce la forma indecente del predatore. O della predatrice, la madre, la feroce madre che fa pagare cara la vita da lei donata, sconvolta baccante mangiatrice dei suoi frutti. Il sesso omosessuale come desiderio di divoramento, pulsione antropofaga del figlio carnivoro ormai, l’età adulta è l’età in cui si gozzoviglia col corpo dell’altro, Dario Guidi attore silente in mutande bianche, disarticolato ai piedi dell’attrice come un Cristo schiodato dalla croce, poi allungato da parere una salma su un tavolo per autopsie (o per banchetti) piazzato in scena di traverso alla strada dove è passata la Giulia. Cola molto sangue da questo spettacolo, molti umori; scorre anche molta voce di Francesca Benedetti, quasi sempre alta, alterata d’urli, strepiti, ghigni; fluiscono gesti delle mani e movimenti ricercati, plastici, e qui si sta di nuovo nella forma, forma costruita su una tecnica accademica. È un’interprete di tradizione che non chiama al giudizio, non s’adegua al gusto della facilità realistica, essa si mostra così com’è, classica, impostata, antinaturalistica, al limite del mattatoriale. Forse questo è il modo migliore di interpretare un testo siffatto, prezioso e fluido alla lettura ma più resistente alla recitazione. Tutto è esagerato, Pasolini è esagerato, la regia di Carniti, le luci, le sconcezze dette non come provocazione sessuale – suonerebbero risibili di fronte all’immoralità moralistica del porno in rete – ma come scandalo esistenziale e intellettuale d’una mente che pensa dentro un corpo che gode. Difficile trovare in tempi così bigotti come gli attuali un’oscenità più inaccettabile d’un poeta capace di volare in un cielo coperto di fango.

Marcantonio Lucidi,
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