“Miracoli metropolitani” di Gabriele Di Luca anche regista assieme a Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi. Uno spettacolo della Carrozzeria Orfeo. Al Vascello di Roma

Miracoli metropolitani

Gioventù brucata (dalla vacca del capitalismo)

Premesso che la Carrozzeria Orfeo è una compagnia di meritato successo, dagli spettacoli ben scritti, ben fatti e recitati; accertato che hanno un gran seguito e riempiono le sale teatrali soprattutto di giovani non solo per la loro abilità sui social ma perché colgono istanze, temi, visioni, disturbi e paure di almeno due generazioni, la loro di quarantenni e la successiva, la domanda è: il mondo è brutto come lo rappresentano?
Non si tratta di opporre una barriera di ottimismo alle distopie messe in scena dalla compagnia, in particolare quest’ultima, Miracoli metropolitani, arrivata al Vascello di Roma e in procinto di ripartire in tournée per l’Italia. Il fatto è che il mondo appare più complesso di un semplice inferno e il poco di bene che vi scorre scombina ogni analisi, ogni progetto, ogni previsione. Vaticinare il futuro, anche catastrofico, è rassicurante. Si sa dove si va (a sbattere) ma almeno si sa e tutto sembra più chiaro. È invece possibile che Dio abbia messo nella Creazione una goccia di bene, di buono, di bello, tre volte la “b” della parola bios, vita, per fregarci e ridere di noi ignoranti che non guardiamo il cielo ed invece sempre a testa bassa osserviamo la geenna. La geenna, sinonimo dell’inferno, è il nome biblico della valle di Ennom a sud-ovest delle porte di Gerusalemme che fu adibita a scarico dei rifiuti della città e a luogo ove gettare le carogne delle bestie e i cadaveri dei delinquenti da bruciare. Miracoli metropolitani, drammaturgia di Gabriele Di Luca anche coregista assieme a Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi nasce dal ritrovamento nel 2017 di un gigantesco blocco di immondizia, un fatberg, ossia un iceberg di grasso calcificato, scoperto dai sommozzatori fognari nelle fogne del quartiere londinese di Whitechapel. Il fatberg, pesante centotrenta tonnellate, era composto da ogni tipo di lordura gettata dalla popolazione nei gabinetti (escrementi, salviette, pannolini, preservativi, cicche, eccetera). La specie umana è la più formidabile produttrice di pattume mai apparsa sulla terra, si tratta chiaramente della sua attività principale.
Da questo fatto di cronaca, la Carrozzeria Orfeo risale, diciamo così, la rete fognaria e approda in una cucina specializzata in cibo a domicilio per intolleranti alimentari. La memoria va a The kitchen, il primo dramma dell’inglese Arnold Wesker (1932 – 2016), in cui la rappresentazione della vita quotidiana nella cucina di un ristorante conteneva una critica sociale e una denuncia dello sfruttamento dei lavoratori e dei problemi di integrazione in una società multietnica. Il dramma di Wesker è stato riproposto poco tempo fa, nel 2018, con un’ottima regia di Valerio Binasco.
Facilmente una cucina diventa una rappresentazione allegorica della società, al pari di una redazione di giornale o di una caserma, di ogni luogo passibile di forte tensione collettiva e di scontri personali, rivalità, invidie, prevaricazioni, discriminazioni, sopraffazioni, giochi di potere e violenze gerarchiche. Gli otto personaggi della commedia, della tragicommedia piuttosto, sono Plinio, un tempo chef stellato adesso costretto a preparare cibi precotti e liofilizzati importati dalla Cina; la moglie Clara, ex lavapiatti che si agita come imprenditrice e passa il tempo a litigare con il marito da lei considerato un fallito; il figlio di Clara e figliastro del cuoco, diciannovenne  disturbato, con problemi emotivi, chiuso nella sua stanza a giocare con dei videogame bellici; la madre settantenne di Plinio, una ex brigatista andata in giro per il mondo a fare la guerra alle dittature di destra. Ci sono inoltre un aspirante suicida, un carcerato messo ai lavori socialmente utili che vuole fare l’attore; un libanese già professore universitario che in Italia lavora come rider sottopagato e un’ambigua lavapiatti etiope. Sono tutti personaggi standard nella produzione della Carrozzeria Orfeo, il cui stampo di caratteri frustrati, marginali, grotteschi si ritrova in spettacoli precedenti della compagnia, per esempio l’ex prete tossico, il sordomuto omosessuale e la donna orba ed erotomane di Cous Cous klan oppure in Thanks for vaselina il padre transessuale membro di una setta esoterica e la madre cinquantenne ludopatica uscita da un centro di disintossicazione. Non è più un filone di teatro dei fuoricasta, degli arrabbiati o dei disperati; è una scena che sta fra il commerciale e l’apocalittico perché offre ai suoi spettatori più affezionati, una gioventù brucata dalla vacca grassa del capitalismo e concimata dal consumismo, una forma di escatologia della scatologia. Scrive l’autore: “È una società, quindi, che sta per essere sepolta dai suoi stessi escrementi, metafora di pensieri e azioni malate, di un capitalismo culturale orribile, di un’umanità ai ferri corti con sé stessa dove la “merda” più che nelle fogne sembra annidarsi nei cervelli”. I francesi però, che su questo tema vantano una filosofia secolare, hanno un proverbio molto chiaro, definitivo: “Tout le monde dans la merde, personne (nessuno) dans la merde”.
Le parole che descrivono il significato dello spettacolo sono i sinonimi che la Treccani elenca per la voce “degrado”: decadenza, decadimento, degradazione, deterioramento, scadimento. E per “degradazione”: abbrutimento, abiezione, avvilimento, svilimento, umiliazione. Nella cucina di Miracoli metropolitani avvengono una quantità di fatti e fatterelli, litigate, improperi, scenate, scambi di insulti e parolacce, parolacce a grandinata. Il pubblico ride molto e forte epperò ride verde perché il dramma pare una commedia ed invece è una tragedia che come questione centrale ha il cibo, metafora (ma non troppo) della spaventosa avidità del mondo occidentale, del continuo mangiare, divorare, inghiottire. Desiderare, bramare, ghermire. Sprecare, buttare, espellere nella frenesia digestiva di una società gastrica. Un giovane Emile Cioran scriveva: “Quando non si crede a niente, i sensi diventano religione. E lo stomaco finalità. Il fenomeno della decadenza è inseparabile dalla gastronomia. Da quando la Francia ha rinnegato la sua vocazione, la masticazione si è elevata a rango di rituale. Il cibo sostituisce le idee”.
Seppure gli artisti di Carrozzeria Orfeo abbiano costruito con molta scienza teatrale questa critica al consumismo, alla violenza intrinseca dell’usa e getta, dello sfrutta e butta, anche loro cadono nella trappola: velocissimi nei ritmi e nei tempi al punto quasi da sovrapporre le battute l’una all’altra, le dicono a raffica come se le dovessero immediatamente strizzare, svuotare e gettare, come se avessero paura d’un istante di silenzio in platea, d’un momento in cui il pubblico non ride ma (forse) pensa alle parole appena ascoltate. Il primo nemico del capitalismo e del consumismo sono il silenzio e la lentezza così come il grande avversario dei giganti dei social media è una buona dormita. In scena lavorano attori abituati al teatro come opera collettiva, bene accordati fra loro, tutti molto rapidi, scattanti, padroni di personaggi facili da interpretare perché piuttosto semplici come caratteri ma difficili da eseguire per i ritmi che i tre registi impongono. Sono Elsa Bossi, Ambra Chiarello, Federico Gatti, Beatrice Schiros, Massimiliano Setti, Federico Vanni e Aleph Viola.

Marcantonio Lucidi,
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