“Tartufo o l’Impostore” di Molière, adattamento e regia di Roberto Valerio anche interprete assieme a Vanessa Gravina e Giuseppe Cederna. Al Quirino di Roma

Il Tartufo

L’ipocrita resiste a tutto tranne che alla tentazione

Un bel Tartufo è venuto fuori dalla regia di Roberto Valerio. Fatto bene, attori bravi, impianto scenico (di Giorgio Gori) semplice e funzionale, costumi (di Lucia Mariani)  novecenteschi giusti per lo stile della messinscena. Fanno un po’ rimpiangere la moda dei tempi di Luigi XIV ma è questione di gusti, a volte di aspettativa. Si vorrebbe vedere ogni tanto, in occasione d’un Molière, un po’ di pizzi, nastri e fiocchi, e farsetti, camicie con le maniche a sbuffo, parrucche e cappelli piumati sopra i lunghi capelli ricci, per le donne corpetti di pizzo a sollevare il seno, colletti in mussola, gonne a pieghe ampie da tirare appena su per rivelare la sottoveste di moiré detta “friponne” (maliziosa, sfacciata). S’avrebbe pure piacere ad ottenere l’impossibile, l’alessandrino, meraviglioso dodecasillabo francese con cui l’autore ha scritto Le Tartuffe ou l’Imposteur (forse l’opera sua più importante), metro che ha il potere di contenere una grande densità di pensiero in uno spazio matematicamente misurato e limitato.
Qui di Molière c’è molto e c’è poco. Roberto Valerio ha preso la commedia nell’ottima traduzione ormai storica di Cesare Garboli, ha tagliato e ancora tagliato, ha eliminato quattro personaggi su dodici, in particolare il suo omonimo Valerio (fidanzato di Marianna) e ha portato avanti fino a darle un peso maggiore Elmira, la moglie di Orgone, il capofamiglia che si sta facendo truffare da Tartufo. Brava donna costretta a trasformarsi in un’intrigante per salvare la casa e il patrimonio, la signora diventa in questa versione la figura centrale di tutta la commedia, non solo dell’azione che porta all’epilogo. Ci sono due passaggi fondamentali nell’originale molieriano per Elmira: la famosissima quinta scena del quart’atto quando Orgone, nascosto sotto il tavolo, ascolta il dialogo fra Elmira e Tartufo in cui lei circuisce ed eccita l’impostore sempre più infoiato; e la precedente, la quarta costituita per oltre metà da una tirata della moglie per indurre il marito a spalleggiarla nella trappola da lei macchinata contro Tartufo. Da come è montata questa scena, si può forse capire qualcosa sull’idea che Valerio ha del testo e sul suo modo di dirigere. Nell’originale, all’inizio della tirata Molière indica in didascalia che Orgone è già sotto il tavolo, quindi l’attrice dovrebbe restare sola in scena o quasi, magari con il lembo della tovaglia alzato ad esporre comicamente il marito in una ridicola posizione, rannicchiato o a quattro zampe. Quindi la tirata in effetti è un monologo. Ma il regista lascia Orgone in piedi e solo quando Tartufo sta per entrare, all’inizio della quinta scena, lo manda sotto il tavolo. Si tratta di un dettaglio ma dice che se il testo è assai accorciato di dialogo e personaggi, l’intento è di mantenere corale lo spettacolo. Valerio vuole salvaguardare lo strano equilibrio di un’opera che si manifesta inoppugnabilmente come commedia ma contiene un aspetto tragico – la rovina di una famiglia – risolto solo nel finale con un colpo di scena; e che ha un forte significato politico in quel momento storico, nel mezzo della lotta contro i giansenisti, i quali costituiscono per il papato una minaccia scismatica. Dopo la “prima” a Versailles davanti al re e alla corte il 12 maggio 1664, Luigi XIV è costretto a censurare il Tartufo e vietarne le rappresentazioni pubbliche perché non può inimicarsi le gerarchie ecclesiastiche lasciando andare in giro per i teatri di Parigi un personaggio di devoto truffatore così pregiudizievole per la Chiesa. Esaltare la parte di Elvira, quindi in un certo qual modo spostare l’equilibrio della commedia, non deve nuocere al suo significato, che è enorme. Infatti l’interdetto reale genera una fortissima querelle, forse la più importante controversia della storia del teatro francese, che coinvolge i maggiori intellettuali e le personalità più influenti dell’epoca. Si tratta di una polemica che dura anni e contrappone idee diverse su un tema fondamentale, ossia le rispettive attribuzioni e prerogative dei poteri civile e religioso.
Tutto questo naturalmente non è espresso dalla messinscena al Quirino, né potrebbe esserlo. Tuttavia il senso del collettivo e soprattutto l’attenzione della regia a mantenere sempre alta la commedia, e comica comunque, evitando che per via dei tagli si ischeletrisca in farsa, danno idea che Valerio sappia perfettamente cosa sta maneggiando. Non ha nessuna importanza che l’adattamento manipolatorio sia dovuto ad esigenze produttive oppure alla necessità di ridurre il tempo di rappresentazione a un’ora e quaranta circa per via di una minore resistenza del pubblico di oggi al fatto teatrale. Conta naturalmente il risultato. Anzi, si vuole sperare che sia stata proprio la dittatura dell’economia la costrizione alla cura dimagrante perché l’allestimento sarebbe in tal caso la prova di come da una difficoltà non estetica possa nascere una soluzione estetica persino moderna. Il teatro è sempre soggetto al triangolo sistema produttivo – testo – spazio scenico. E guarda caso architettonicamente il Quirino, rinnovato radicalmente nel 1914 con ispirazione secessionista viennese da un architetto di eccezionale modernità come Marcello Piacentini, accoglie magnificamente questo Tartufo.
Lo stile di Piacentini fu detto “neoclassicismo semplificato”, definizione che potrebbe funzionare per la prova del gruppo di attori in scena. Nella loro modernità, non presentano ubbie naturalistiche. Senza mai arrivare all’innaturalezza e alla maniera, si avvalgono dei ferri del mestiere, l’artificio e l’effetto sempre intesi come un patto con il pubblico: io spettatore faccio finta di credere che tu attore non stai fingendo mentre tu fai finta che io ti creda. Così la strada della recitazione come interpretazione e non come riproduzione si apre davanti alla bravura di questa compagnia capace di onorare il patto. Vanessa Gravina è un’Elmira sensuale e tentatrice ma costumata e onesta; Orgone, lo stesso Roberto Valerio, è un ingenuo, un grullo, però complicato nel ragionare e astruso nella logica; Giuseppe Cederna fa Tartufo, l’ipocrita per eccellenza del repertorio teatrale occidentale, bizzoco e criminale, moralista e lascivo, falso misericordioso avido e maligno. Saper coniugare gli opposti è da interpreti, non da ripetitori.
In scena anche Irene Pagano (Marianne) che ha due o tre momenti ottimi; Massimo Grigò nel doppio ruolo di Cleante e del servo di Tartufo, è un attore bravo, ben impostato e tecnico ma non affettato né freddo, dalla bella voce profonda e teatrale che sa usare; Luca Tanganelli si mostra bene in parte nel ruolo di Damide (il figlio di Orgone) ed Elisabetta Piccolomini appare molto giusta per Madama Pernella. Il ruolo di Dorina, una classica deliziosa maliziosa servetta molieriana, è affidato a Roberta Rosignoli: caratterista brava, veloce, agile nella voce e nel movimento, dà l’impressione di raffrenarsi un po’, come se la regia le avesse chiesto di non spingere troppo per evitare squilibri in alcune scene. E lei, controllando la propria indole, esegue, perché oltre al mestiere esiste anche la professionalità.

Marcantonio Lucidi,
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