“Ciccioni con la gonna” di Nicky Silver, regia di Michele De Maria, con gli attori della compagnia Lumik Teatro. All’Altrove di Roma

Ciccioni con la gonna

Sulla o-scena della parolaccia

Con l’americano Nicky Silver, il problema dell’originalità in fatti di teatro è presto risolta. Per Fat men in skirts, titolo italiano Ciccioni con la gonna, l’autore ha preso un po’ di commedia nera, una buona dose di grand-guignol, guarnito di qualche battuta a mo’ di sottaceto, innaffiato un paio di volte con il vinello della critica sociale e ricoperto alla David Mamet con il ketchup all’americana delle parolacce che dà sapore a tutto. Una sequela di “cazzo qui, cazzo là”, messi a manciate per il testo, dove capita, più altre volgarità per variare, parole pesanti, metafore scurrili, che sono il sale, il pepe, il cavolo bollito di un naturalismo da rutto, di un realismo da deretano per riprodurre un linguaggio da strada, quindi da fogna.
Ci si chiede perché Michele Demaria, regista dello spettacolo, e Ludovica Apollonj Ghetti (una delle interpreti), che hanno fondato Lumik teatro, compagnia di nuova formazione, hanno sentito la necessità di mettere in scena all’Altrove di Roma questo testo scritto nel 1989 da un debuttante dell’epoca che imitava le sequele di oscenità e insulti dei drammi di Mamet e altri sparasconcezze in lingua inglese.
Nicky Silver, tutt’oggi praticamente sconosciuto in Italia (per buone ragioni, sembrerebbe), racconta la storia di una famiglia formata da una madre, un padre che lavora a Hollywood, la sua amante, attrice porno aspirante diva del cinema, e il figlio che pratica il cannibalismo, mangia gambe, braccia e anche bambini interi. Il ragazzo fa sesso con la madre e uccide il padre, quindi lo spettatore pensa “ecco la solita storiella del complesso di Edipo” e invece no, il mago Silver sorprende tutti e il giovane antropofago, in giro per la scena sempre con le mani sporche di rosso sangue, divora anche la sua Giocasta. Il tutto in tre atti attentamente lenti, necessari a mettere in scena con il dovuto puntiglio ogni momento e passaggio, non sia mai lo spettatore manchi di capire. Deve trattarsi di una variante del complesso di Edipo, il complesso del bradipo.
Di che parla il dramma? Argomenti a scelta degli spettatori: la degradazione della sfera familiare oppure il disturbo ossessivo-compulsivo del ripetitivo ipnotico parolacciaro Hannibal the Pentothal. Magari s’occupa di Hollywood, colpevole di allontanare i padri dalla casa coniugale; forse si tratta di un attacco all’ideologia del magna magna o alle teorie di Freud, incapace di comprendere il complesso di Geronte, ossia che il vero problema sono i nonni, totalmente assenti dalla commedia, i quali forse avrebbero potuto evitare al nipote scannacristiani di mettersi nei guai.
In scena, oltre a Ludovica Apollonj Ghetti, anche Elisa Lucarelli, Nicola Sorrenti, Davide Paganini. Gli attori “ci danno dentro” – direbbe un drammaturgo americano – come pugili contro i sacchi imbottiti di sabbia. Sembra proprio che credano nei personaggi grossolani e inverosimili (ma non grotteschi, purtroppo) di Silver, che se li siano caricati in spalla con convinzione e abnegazione. Magari fanno soltanto finta di crederci: recitare è un gioco, non un giogo.

Marcantonio Lucidi,
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