Paola Quattrini in “Oggi è già domani” di Willy Russell, adattamento di Iaia Fiastri, regia di Pietro Garinei, musiche di Armando Trovajoli. Al teatro Manzoni di Roma

Paola Quattrini

Nella terra della libertà

Ora che lentamente starebbe ricominciando, almeno sembra, una vita più normale – una vita – andare a teatro significa ritornare nella terra della libertà. Quale che sia lo spettacolo. Se poi si ha la ventura di assistere a un assolo di Paola Quattrini, allora quasi vien da dire che anche la contentezza è di nuovo possibile.
Per riaprire il teatro Manzoni, l’attrice ha voluto riproporre un allestimento molto sicuro del suo repertorio, sempre giusto, perché la regia è firmata da Pietro Garinei (l’ultima prima che se ne andasse nel 2006), le musiche sono di Armando Trovajoli e l’adattamento è un lavoro di Iaia Fiastri intitolato Oggi è già domani (dall’originale di Willy Russell, Shirley Valentine). Tre grandi nomi che hanno rappresentato una stagione felice della scena italiana. Oggi è già domani, che per giunta suona in questi giorni come un auspicio fausto, si rivela spettacolo azzeccato perché un risveglio alla vita ha da essere un’emersione dolce, quieta, il ritorno in un mondo conosciuto; l’atto stesso di andare a teatro – arrivare nel foyer, entrare in sala, sedersi – va accompagnato dalla certezza che in scena ci sarà un’attrice brava con nel cuore e nella mente un testo ben scritto. Cose semplici, un tavolo, una sedia, una voce e un corpo da interprete che generano un’azione e raccontano una storia. Ricominciare dal mestiere, dalla parola, dal gesto, dalla presenza scenica, la padronanza dello spazio, il controllo delle intonazioni, l’intenzione, la mimica, la maestria nello stare sul palco con eleganza, il savoir-faire. Tutto ciò potrà essere tacciato di conservatorismo teatrale ma chi se ne importa, per un anno e mezzo si è vissuto nella mal’ora dell’anormalità e si sente la necessità d’un po’ di buona grazia, d’una risistemata dopo il ruzzolone in una gora.
Il monologo allora non pare più un espediente coatto nell’ischeletrimento generale causato dalla peste coronata, per sbarcare il lunario teatrale in mancanza di soldi e limitare il rischio produttivo in penuria di pubblico contingentato. Diventa una commedia in due atti per interprete solista nella quale i personaggi che non sono in scena appaiono comunque allo spettatore in virtù della potenza evocatrice dell’artista. In un certo modo si tratta dell’operazione contraria alla famosa sospensione dell’incredulità, è una moltiplicazione della credulità. Quindi Dora è lì, sul palco, in cucina a preparare la cena per il marito assente – assente nella carne e nell’anima – e a parlare di come vive, di cosa pensa, dei figli che sono ancor meno presenti del padre, della vicina di casa, di una vecchia amica di scuola incontrata per caso e altre amenità. Ne parla al muro della cucina che ha il vantaggio di sapere ascoltare. Oggi però, giorno apparentemente uguale a ieri, questa signora casalinga ha deviato, senza che nessuno se ne accorga, per una strada di liberazione. E siccome è molto tenera, molto dolce ed autoironica, lei stessa non si avvede della svolta almeno per gran parte della commedia (niente retoriche istanze femministe, o guerre di genere, aggressive rivendicazioni di parità) perché chi pratica l’arte di ridere di se stesso può ritrovarsi a fare la rivoluzione senza tragedie, come se camminasse su braci ardenti con piedi di ghiaccio: ne vengono fuori i vapori dell’ilarità.

Marcantonio Lucidi,
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