“Mein Kampf Kabarett” di George Tabori, regia di Nicola Alberto Orofino. Con, fra gli altri, Giovanni Arezzo e Luca Fiorino. Teatro de’ Servi di Roma

Mein Kampf Kabarett 5

Hitler, lo shlemiel del villaggio

George Tabori, ebreo ungherese nato nel 1914 a Budapest e morto nel 2007 a Berlino, è un autore non dimenticato e non ricordato, nel senso che ogni tanto riemerge, qualcuno lo rimette in scena e poi torna in purgatorio in attesa, generalmente abbastanza lunga, della volta successiva.
L’attesa è una condizione molto ebraica, e assurda quando diventa la forma della vita quotidiana come è il caso di Shlomo, l’ebreo mercante di Bibbie che alberga in un dormitorio pubblico e sogna di scrivere un grande libro sul significato dell’esistenza. Shlomo è uno dei coprotagonisti della commedia più nota di Tabori intitolata con un umorismo macabro e anch’esso molto ebraico: Mein Kampf. Ora, questo titolo raccapricciante è stato un po’ addolcito in Mein Kampf Kabarett dal regista dell’allestimento in scena al teatro de’ Servi di Roma, Nicola Alberto Orofino. La ragione è ovvia: nel Kabarett, forma di spettacolo a forte connotazione satirica e politica, negli anni di Weimar e poco oltre lavorava un buon numero di artisti ebrei. Poi arrivò Hitler.
Hitler è l’altro coprotagonista di questa farsa lunga, troppo lunga, che non vale le due ore di rappresentazione al teatro de’ Servi. Addirittura pare che la prima messinscena nel 1987 al Burghtheater di Vienna con regia dello stesso Tabori durasse di più e nel 2002 si allestì un’edizione francese ad Avignone di quasi tre ore. A volte i registi non sanno quello che fanno, soprattutto per quanto tempo lo fanno.
Adolf è una specie di pazzoide isterico, un giovane pezzente imbecille e aggressivo che ambisce a fare il pittore. Arriva a Vienna e va a vivere nell’ospizio in mezzo agli ebrei fra i quali oltre a Shlomo, c’è anche Lobkowitz, il cuciniere che si crede Dio. Candidato all’accademia di belle arti Hitler viene, come noto, bocciato all’esame di ammissione. Il futuro führer si presentò nell’ottobre 1907: “Scarse attitudini. Prova di disegno; insufficiente”, scrissero gli esaminatori. Ritentò l’anno successivo ma i suoi lavori erano talmente scadenti che non venne nemmeno ammesso alla prova. Quello è il periodo di cui parla Tabori, però la farsa è volutamente piena di anacronismi, si cita pure Charlie Chaplin il quale, nato nello stesso anno di Hitler (il 1889), in quel periodo era ancora nessuno e lavorava nella compagnia del geniale impresario teatrale Fred Karno per tre sterline a settimana. Tabori mette dentro alla sua commedia un po’ di tutto, le atmosfere espressioniste da sottoproletariato urbano alla Alfred Döblin di Berlin Alexanderplatz assieme alle storielle e barzellette ebraiche che un cristiano deve astenersi dal ripetere se non vuole rischiare di sembrare antisemita. L’autore infila nel testo anche un po’ di battute grand-guignolesche fra il poetico e lo scabroso e si diverte con certe piccole trovate fintamente ingenue e vagamente stomachevoli: gli ebrei che insegnano a Hitler il saluto a braccio teso e mano aperta; Shlomo che gli cede il titolo del libro che sta scrivendo sul senso della vita, Mein Kampf appunto. Shlomo di cognome fa Herzl come Theodor, il primo teorizzatore dello Stato d’Israele, e prende sotto la sua ala protettrice il giovane bilioso Adolf che qui fa figura di uno shlemiel, come si dice in yiddish, ossia lo stupido, lo scemo del villaggio, quello che secondo la tradizione orale “cade di schiena e si graffia il naso”. In fondo è terribile, e molto tipico dell’umorismo ebraico, immaginare questo imbecille e futuro genocida protetto e aiutato da un ashkenazita che gli fa praticamente da “mame”, da mamma ebraica, figura archetipica d’una quantità di aneddoti e proverbi.
Quando si pensa ormai che la serata volga al termine, appaiono una ragazza di nome Gretchen, che rappresenta l’irrealizzabile sogno erotico di Shlomo, e la Morte che invece è la futura compagna di Hitler. A ognuno la propria donna. Ma questa specie di rilancio della farsa a metà della seconda ora di rappresentazione con una iniezione drammaturgicamente forzata di ulteriori personaggi è segno d’una costruzione non molto abile, d’una commedia che non riesce a svilupparsi e arrivare in fondo per forza interna ma abbisogna d’un po’ di droga per non afflosciarsi.
In scena si urla troppo. Strilla Hitler che per quanto carattere notoriamente iracondo avrà pure dei momenti di quiete o comunque di riposo delle corde vocali, come ha così ben mostrato Bruno Ganz in La caduta. Ma strilla pure Shlomo, il quale non ha troppe ragioni d’alzare la voce e si perde possibili effetti del suo rapporto con Hitler, per esempio una raccapricciante e paradossale complicità fra l’ebreo e il futuro führer, un mostro che il testo di Tabori permetterebbe di inclinare verso il grottesco, sul modello di Frankenstein junior (infatti Mel Brooks è ashkenazita come lo era Gene Wilder).
Il regista sembra avere avuto paura che lo spettacolo non reggesse (con buone ragioni) e lo ha forzato di qua e di là, lo ha mosso, agitato, scosso. Gli ha dato nervosismo sperando di infondergli vigore. Sembra essere stato affascinato dall’idea in sé – Hitler in mezzo agli ebrei di un ospizio – ma Tabori non era Brecht, che peraltro conosceva. La sua farsa è irriguardosa, provocatoria, sfacciata, anche coraggiosa se si pensa che l’autore ha visto metà della sua famiglia morire nei campi di concentramento. Però malgrado i personaggi secondari, allegorici seppur grotteschi –  Lobkowitz, un Dio straccione;  Gretchen, un Eros vergine e vano; e la Morte golosa di sterminio – la commedia non sembra avere la dimensione di una metafora della vita, del bene, del male. Del male generato da un idiota. Anche perché per riuscire a fare dell’orrore nazista una metafora bisogna avere il genio di un Chaplin o di un Roberto Benigni, altrimenti il Terzo Reich resta un rutto, lo spaventoso rutto di Satana.
In scena un gruppo di attori senza i quali, urla a parte, lo spettacolo sarebbe venuto giù in meno di mezz’ora: Giovanni Arezzo (Hitler), Francesco Bernava (Lobkowitz), Egle Doria (la Morte), Luca Fiorino (Shlomo), Alice Sgroi (Gretchen).

Marcantonio Lucidi,
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