A Roma due spettacoli di Vincenzo Cerami: “Un borghese piccolo piccolo” all’Eliseo con Massimo Dapporto diretto da Fabrizio Coniglio e “Gente di Cerami” al ridotto del Vascello, regia di Norma Martelli, con Massimo Wertmuller e Anna Ferruzzo

Vincenzo-Cerami

Uomini nella gabbia di un disegnatore d’anime

A quattro anni dalla scomparsa di Vincenzo Cerami, sono due gli spettacoli che a Roma mettono in scena la sua letteratura: all’Eliseo si dà Un borghese piccolo piccolo, adattamento del romanzo e regia di Fabrizio Coniglio, con un bravissimo Massimo Dapporto nel ruolo del titolo che fu di Alberto Sordi nell’omonimo film del ‘77 di Mario Monicelli; al ridotto del teatro Vascello, un altro attore molto bravo, Massimo Wertmuller è diretto assieme ad Anna Ferruzzo da Norma Martelli in La gente di Cerami, trasposizione teatrale di brevi racconti d‘uno dei migliori narratori, come scrittore e sceneggiatore cinematografico, della Roma contemporanea, dei suoi abitanti e in generale degli italiani.
Pur essendo i due allestimenti alquanto diversi – un vero e proprio dramma all’Eliseo mentre al Vascello si sta più vicini al teatro musicale – vi sono alcuni punti di contatto: tutti i personaggi di Cerami, anche il borghese Giovanni Vivaldi, sono dei prigionieri. Delle proprie visioni del mondo, delle proprie aspirazioni, dei sogni, del modo d’essere, dello status sociale. Ognuno di noi è la gabbia di se stesso. In ambedue i casi le musiche di Nicola Piovani, grande amico e compagno d’arte di Cerami, non rappresentano un arredamento sonoro dei due titoli in scena, piuttosto trasferiscono nell’astrazione musicale la dolcezza, la pietas per l’umanità che si sente nei personaggi di Cerami, creati apparentemente da una fredda osservazione entomologica ed in effetti generati con tormentata tenerezza, nati inadatti a questo mondo, anime scosse dai loro quieti sogni di modestia, vite cadute storte e costrette a forza in questo tempo, come triangoli incastrati dentro a dei quadrati.
Di misericordia amara è colma l’interpretazione di Massimo Dapporto che entra nel personaggio di Giovanni Vivaldi con cautela, come se si muovesse di notte in un negozio di bicchieri al buio. Infatti all’inizio quasi non si capisce bene come affronta il ruolo, forse anche perché nella mente dello spettatore v’è il segno forte di Alberto Sordi. Ma la trasposizione teatrale di Coniglio è al romanzo più fedele del film. Ci si aspetterebbe comunque da Dapporto una caratterizzazione immediata, assertiva, e invece ha ragione l’attore, il quale lentamente, ritmicamente illumina una ad una le stanze della mente di Vivaldi. Dalla prima scena della battuta di pesca fino alla mitragliata del rapinatore che uccide il figlio Mario – proprio quella mattina della speranza, del futuro, del concorso per entrare nel ministero in cui lavora il padre – Dapporto ingrandisce a poco a poco il mondo d’un piccolo uomo (senza però la triste retorica d’una grandezza del mediocre). E l’attenzione pignola, la cura estrema nello spingere il figlio appena diplomato in ragioneria certificano l’ambizione massima di Vivaldi, primordiale, quasi biologica, genetica, di sopravvivere a se stesso, di saltare la propria morte e farsi portare dal suo ragazzo, dal custode dei suoi cromosomi, nell’avvenire e nell’immortalità. Per questo giovane sempliciotto, che Matteo Francomano disegna come una figurina d’un dramma di insetto abbattuto con indifferenza dalla vita, Giovanni Vivaldi finisce addirittura per entrare in massoneria tramite il suo capoufficio. I fratelli massoni devono spianare la strada del concorso al ragionierino un po’ tontolone. Un’Italia così, l’Italietta degli espedienti, lo Stellone della raccomandazione volta alla sopravvivenza, per un’esistenza appena sopra il pelo dell’acqua, un centimetro prima dell’annaspo. Senz’arte ma con carte (da passare). C’è l’idea d’una farsa nella scena dell’iniziazione massonica di Vivaldi – l’enorme porta d’ingresso alla loggia è un efficace segno scenografico di Gaspare De Pascali (i costumi sono di Sandra Cardini) – ma anche qui si parte dall’inadeguatezza delle persone di fronte a ciò che sarebbe un rito misterico e diventa una buffonata. È l’esoterismo delle mezzemaniche, la libera muratoria dei carcerati ministeriali, il micropotere settario del capoufficio, bene interpretato da Roberto D’Alessandro con prelatizia untuosità, con l’ignobile condiscendenza cameratesca e feroce del superiore che decide un destino d’un grado più minuscolo del suo.
Infine vi è l’amore di Giovanni per Amalia (Susanna Marcomeni), la moglie che non crede in lui, piccina che disprezza il piccino, ma finalmente vede una grandezza del marito che ha ottenuto sottobanco la traccia del concorso, un foglietto di carta sul quale erigere la statua equestre del capo di casa, come ancora si sente dire nella provincia profonda italiana. Tutto finirà male naturalmente, anzi peggio, e Vivaldi solo, in pensione, va in proscenio a calcolare quanto gli resta da vivere, quindici anni forse, centottanta mesi, dieci di sicuro: “Quanti giorni ci sono in dieci anni? Tanti, troppi, tutti da vivere così, così, così, così, così…”
La ripetizione è un tocco della morte, è pietrificazione, ossificazione dell’uomo prigioniero e ischeletrito nella gabbia di se stesso. A metà de La gente di Cerami, lui dice a lei a proposito d’una lettera che le avrebbe scritto: “Giuro l’ho scritta. / L’ho scritta a penna”. E lei risponde cantando: “Non c’è”. Ancora lui: “Cerca in soffitta. / La testa tentenna.” E lei ripete: “Non c’è”. “Mi gira la testa. / Forse tu non esisti”. “Non c’è”. La lettera non si trova, sono andati tutti via, ognuno sta da qualche parte, murato dentro di sé. “Ma c’è qualcuno?” “Non c’è”. “Non c’è nessuno?” “Non c’è”. Questa è la tragedia umana di Cerami che dà sempre l’impressione di stare seduto al tavolino d’un bar, un bel mattino inoltrato di primavera romana, a guardare la folla di gente che non c’è per poi isolare un passante, perché ha una faccia, o una cravatta che dice qualcosa. Ed è così che la regia di Norma Martelli procede, a brevi segni, mette un paio di occhiali a Wertmuller, cambia un cappellino ad Anna Ferruzzo o le scarpe, stavolta hanno il tacco un po’ osé, e subito s’entra in una storia, un marito che diffama la moglie per convincere l’amico traditore a non andarci più a letto: bruttissima, insopportabile, testarda, cattiva, stupida, noiosa, con le caviglie grosse, chiazze orrende sul collo per l’allergia alle fibre sintetiche. Chi te lo fa fare di prenderla, pensaci bene. Ma l’amico, che non c’è ed è rappresentato dal flautista, non risponde e continua a suonare imperterrito, la musica scorre sulla progressiva disperazione del marito che chiude in ginocchio implorando: “Ti scongiuro… lasciala, lasciamela, lasciamela”.
Storie d’amori rimasti sospesi, incontri mancati di poco, d’un soffio, chissà perché, un uomo e una donna si rivedono dopo molti anni, non si sa come finì, lei si è sposata, è diventata madre e al secondo figlio ha imposto il nome di quel ricordo lontano di passione. Eppure non si tratta solo di amore, anche qui Cerami osserva l’italiano di un’Italia che se ne va, scivola dal boom economico in poi dentro pozzanghere di scostumatezza, di ricchezza nuova e ineducata. L’inizio è surreale: la caccia a una mosca che si posa dappertutto, sul Viminale e a Caserta sul Palazzo Reale, sull’ampolla di San Gennaro, sull’Ara Coeli e a Catanzaro, su ogni piazza e su ogni via, guasta il paese di setticemia.
È uno spettacolo da trattare con delicatezza, Cerami ha un lato grottesco da lasciare intuire ma non esibire. Il grottesco esplicito distruggerebbe l’ironia. Allora Wertmuller, attore di comicità istintiva, veloce, di mimica vigorosa, faceta, si raffrena e questo suo trattenimento rende più tesi i personaggi, più astratti e in certo modo musicali. Anna Ferruzzo, che è sottile fisicamente ed interpretativamente, affronta una precisa complicazione: l’autore è un tratteggiatore soprattutto di anime maschili ed è con il lavoro di regia e di adattamento di Aisha Cerami che nasce la donna dello spettacolo. E poi però l’attrice le trova, queste donne, non mollando mai i personaggi, rimanendo sempre in parte, anche fuori battuta, con brevi segni e movimenti e il gesto d’una mano e uno sguardo e una piegatura delle labbra.
In quella piccola stanza-teatro rettangolare dal soffitto basso che è il ridotto del Vascello, con il pubblico posto su due lati, le luci di Danilo Facco sono un esercizio di alta illuminazione. Costumi di Silvia Polidori adatti alle necessità di definizione immediata delle figure umane di Cerami, sculture di Sergio Tramonti, Alessio Mancini al flauto e alla chitarra, Sergio Colicchio alla tastiera e alla fisarmonica.
Sul muro lungo dello spazio scenico, un fondale nero: dà l’impressione di un sipario che nasconde una platea, attori e spettatori starebbero quindi in palcoscenico. Forse dall’altro lato su una poltrona è seduto Vincenzo Cerami a osservare, come al solito suo, e magari ad aspettare che finalmente lo si riconosca come un gran disegnatore d’anime, e d’anime capitoline, l’unico scrittore importante degli ultimi decenni, a parte Moravia, che da romano sapesse veramente scrivere dei romani.

Marcantonio Lucidi,
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