“Nessuno muore” scritto e diretto da Luca De Bei alla Cometa

nessunomuore

Nessun dorma

Sono pochi i drammaturghi e registi che possono permettersi di propinare due ore e mezza di spettacolo. Non Luca De Bei. Alla fine di Nessuno muore, da lui scritto e diretto alla Cometa, si sono capite alcune grandi verità, ignote ai più: la vita fa schifo; quando gli uomini non fanno schifo, sono dei poveracci in balia degli eventi; e nulla si può fare per ovviare all’incresciosa situazione. A metà di questi centocinquanta minuti di profonda conoscenza del mondo, due spettatori in seconda fila hanno osato sussurrare che non erano venuti là per soffrire. È vero che si sono scritte e divulgate teorie sull’obbligo del teatro di martoriare le platee, tuttavia qualcuno l’altra sera si è rifugiato nel sonno. “Il sonno infatti è una vita di ricupero, il teatro una vita di ricambio”, scrisse Ennio Flaiano per difendere un grande critico del passato, Raul Radice, colpevole di essersi addormentato a uno spettacolo di Natalia Ginzburg. Quindi il sonnellino è un complimento a De Bei che almeno in questo raggiunge le altezze dell’autrice di Lessico famigliare.
Il teatro come metafora, discorso sugli uomini, finzione che dice una verità, è un teatro di interpretazione del mondo. De Bei pratica un teatro di riproduzione. E la riproduzione è una falsificazione, nel migliore dei casi una verità trasformata in finzione. Semplicemente perché non è possibile sollevare di peso la realtà e scaraventarla su un palcoscenico. Lì sopra nulla accade realmente, a meno di decidere che assieme ad Amleto debba morire anche il suo interprete. Sarebbe una soluzione per sterminare la vil razza degli attori e i più contenti forse sarebbero i registi, liberi finalmente di fare il teatro senza questi importuni che da oltre duemila anni si ostinano a distinguere la persona dal personaggio, siano maledetti da Melpomene musa della tragedia.
Nessuno muore sviluppa una serie di piccole tragedie senza il tragico, da qui il titolo evidentemente. Ma se nessuno muore che gusto c’è? Si va a teatro per godere non di quello che succede (il vero) ma di quello che potrebbe succedere (il verosimile), con piena fiducia nell’immaginazione del drammaturgo, del regista e degli artisti in scena.
Gli otto personaggi del testo di De Bei, divisi in scenette a due, s’incontrano, s’intrecciano, s’intersecano: un tizio stupra una donna, questa donna fa l’autrice di soap televisive e ha un sottoposto omosessuale che si è lasciato con il compagno poliziotto che incontra una donna che è la ex moglie dello stupratore e via di seguito. Vecchio trucco, somiglia a una commedia del primo Novecento di Arthur Schnitzler, Girotondo, in cui dieci personaggi s’incontrano a coppie in dieci quadri diversi che finiscono tutti con un atto sessuale. Poi uno dei personaggi del quadro precedente si ripropone nel quadro successivo e così via finché l’uomo della decima scena si congiunge con la donna della prima. Però Girotondo è un colpo di genio sull’impossibilità di amare, quindi non ha bisogno di una vera e propria trama. De Bei invece cerca addirittura di rappresentare, anzi di riprodurre, l’impossibilità di vivere e siccome il teatro è un’anima vivente che ama scherzare, la scena migliore di questo testo che si vuole tragedia senza tragico è una gag: quella in cui l’autrice di soap spiega al suo secondo autore come i censori televisivi vogliono si scriva quella roba per rincitrullire le masse. Si tratta di esperienza personale, De Bei è stato dialoghista per “Vivere e per “Centovetrine”. Allora è sempre la solita storia: chi è un genio ed è stato baciato dagli dèi ha il permesso di scrivere come vuole di ciò che non sa, tanto lo sa; chi invece deve baciare gli dèi, può solo sperare di scrivere come si deve ciò che ha visto (anche se non lo sa).
In scena lavora un buon gruppo di attori senza che nessuno si distingua, tutti molto ligi alla regia. Gli amalgami di media qualità offrono un teatro corretto, professionale, che si suppone adatto al pubblico borghese, ossia il contrario del teatro d’arte.

Marcantonio Lucidi,
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